ANSIA

L’ ansia è l’emozione provata di fronte a una sensazione di minaccia reale (es. minaccia alla persona) o figurata (es. minaccia all’autostima). È una risposta normale e innata di attivazione, caratterizzata da un aumento della vigilanza e dell’attenzione che ha l’obiettivo di prepararci ad affrontare il pericolo percepito predisponendoci a una risposta di attacco o fuga.

L’ansia può essere fisiologica oppure patologica. L’ansia fisiologica ci prepara ad affrontare in maniera adattiva una possibile situazione difficile mentre l’ansia patologica è disfunzionale perché, essendo persistente e intensa, interferisce con la nostra prestazione, e può essere associata a eventi neutri, che non sono realmente pericolosi.

lsintomi dell’ansia posso essere suddivisi in tre categorie:

  • sintomi psicologici dell’ansia: forte apprensione non commisurata alla portata dell’evento reale, nervosismo, alterazione della memoria e della concentrazione, rimuginio e preoccupazione, insicurezza e timore;
  • sintomi fisici dell’ansia: dovuti a una iperattivazione neurovegetativa, sono costituiti da palpitazioni, tachicardia, ipersudorazione, spasmi alla gola, dispnea, vertigini, bisogno frequente di urinare, sintomi gastroenterici, insonnia con difficoltà ad addormentarsi e risvegli frequenti;
  • tensione motoria: tremori, irrequietezza, agitazione, facilità a sussultare, contratture muscolari, cefalea tensiva.

È possibile distinguere diversi tipi di ansia:

  • ansia automatica: risposta innata a un pericolo interno o esterno;
  • ansia anticipatoria: ha breve durata ed è scatenata da un segnale reale o immaginario, identificabile, associato con il pericolo;
  • ansia generalizzata: è una sensazione di tensione durevole non associata a stimoli particolari;
  • attacchi di panico: sono attacchi d’ansia intensi che si risolvono rapidamente, durante i quali si prova un improvviso senso di grave pericolo (es. paura di morire, paura di impazzire, paura di perdere il controllo). Sono caratterizzati da un’attivazione somatica molto marcata, con sintomi fisici intensi quali palpitazioni, fame d’aria, vertigini fino ad arrivare a un senso di estraneamento dalla realtà.

 

L’ansia è un’emozione presente in maniera trasversale in diverse sindromi e disturbi psichiatrici; potremmo dire che praticamente non esiste alcun disturbo in cui non si manifestino problemi di ansia in una fase del suo decorso: problemi di ansia sono presenti nei disturbi correlati all’uso di sostanze, che spesso si sviluppano come tentativo di automedicazione verso una forte ansia; esperienze di ansia sconvolgenti e intense caratterizzano le psicosi, così come le fasi profonde di depressione o di attivazione maniacale; l’ansia si sviluppa come problema secondario nei disturbi somatoformi, nei disturbi sessuali (es. ansia da prestazione) e nella maggior parte delle malattie organiche; nel disturbo ossessivo compulsivo, le ossessioni (pensieri, immagini, paure, impulsi intrusivi e persistenti che l’individuo non riesce a scacciare dalla propria mente) generano nella persona una ansia tale da indurla a mettere in atto rigidi rituali comportamentali o mentali (compulsioni) con l’obiettivo di ridurre e/o neutralizzare l’ansia; nei disturbi da stress correlati, quali il disturbo post traumatico da stress e il disturbo da stress acuto, il soggetto rivive in continuazione il ricordo o  l’immagine di eventi traumatici per lui particolarmente rilevanti, il tutto accompagnato da forte ansia e marcata attivazione neurovegetativa.

lI disturbi d’ansia

Nell’ultima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (quinta edizione; DSM–5; American Psychiatric Association, 2013) vengono classificati come disturbi d’ansia i seguenti disturbi:

  • Disturbo d’ansia da separazione
  • Mutismo selettivo
  • Fobia Specifica
  • Disturbo d’ansia sociale
  • Disturbo di panico
  • Agorafobia
  • Disturbo d’ansia generalizzato
  • Disturbo d’ansia da condizione medica 

È possibile diagnosticare un disturbo d’ansia solo quando si è accertato che i sintomi di ansia non sono attribuibili agli effetti fisiologici di una sostanza o farmaco o a un’altra condizione medica, oppure non sono meglio spiegati da un altro disturbo mentale.

Molti disturbi d’ansia si sviluppano in età infantile e tendono a persistere quando non curati. La maggior parte è più comunemente diffusa nella popolazione femminile, con un rapporto di 2:1 rispetto ai maschi.

Il disturbo d’ansia può presentarsi in associazione con un’ulteriore patologia, solitamente di diversa origine, durante il decorso clinico di quest’ultima. Le malattie che più frequentemente si associano ai disturbi d’ansia sono la depressione soprattutto, i disturbi bipolari, l’ADHD, le patologie respiratorie, cardiache e gastrointestinali, l’ artrite e l’ipertensione (Sareen et al., 2006). Inoltre è assodato come pazienti con altre malattie in comorbilità ai disturbi d’ansia presentino un decorso peggiore del disturbo e una qualità di vita inferiore rispetto a pazienti che presentano esclusivamente un disturbo d’ansia (Sareen et al., 2006).

L’ansia è un’emozione che tutti quanti abbiamo provato di fronte alla percezione di una minaccia, ma questo non implica necessariamente che in seguito si sia sviluppato un disturbo d’ansia.

Normalmente quando proviamo ansia mettiamo in atto delle strategie per ridurre o eliminare la minaccia, ripristinando in questo modo la precedente situazione di normalità.

Quindi che cosa fa sì che l’ansia fisiologica si trasformi in ansia patologica e si strutturi un disturbo d’ansia?

Nei disturbi d’ansia l’attivazione fisiologica che segue la percezione di una minaccia nell’ambiente viene valutata a sua volta in maniera catastrofica dal soggetto, diventando essa stessa una minaccia, spesso ancora più grave della minaccia esterna che ha funzionato da fattore scatenante. Si crea così un circolo vizioso in cui l’interpretazione errata e catastrofica dei sintomi dell’ansia aumenta le sensazioni sgradevoli e queste a loro volta rinforzano l’interpretazione catastrofica. Il disturbo d’ansia viene così mantenuto da:

  • attenzione selettiva. Il soggetto pone estrema attenzione ai segnali del proprio corpo interpretandoli in maniera catastrofica;
  • rimuginio. Il soggetto trascorre molto tempo a preoccuparsi cercando di prevedere o prevenire eventi negativi in condizioni di incertezza e di costruire mentalmente ipotetiche soluzioni senza mai giungere a una conclusione;
  • evitamento. Il soggetto evita gli stimoli temuti per non incorrere nell’ansia, riducendo così i propri gradi di libertà.

Il trattamento elettivo per la cura dei disturbi d’ansia è la psicoterapia associata a un trattamento farmacologico.

I farmaci maggiormente utilizzati come rimedi per l’ansia volti a tenere sotto controllo i sintomi sono:

  • gli antidepressivi SSRI;
  • gli ansiolitici;
  • i beta bloccanti per la gestione di particolare sintomi fisici dell’ansia.

I MECCANISMI DI DIFESA PSICHICI

Quando parliamo di meccanismi di difesa facciamo riferimento ad un termine psicoanalitico che individua i processi dinamici e inconsci mossi dall’io per fronteggiare le richieste libidiche o le esperienze pulsionali che scaturiscono dal conflitto psichico, e che l’Io non riesce ad affrontare in modo diretto.

Questi processi psichici sono messi in atto dall’individuo, più o meno automaticamente, quando si presentano delle situazioni stressanti, e per tenere in equilibrio i conflitti generati dallo scontro tra bisogni, impulsi e desideri da una parte e  dalle proibizioni interne e/o condizioni della realtà dall’altra.

Nella vita quotidiana è normale fare ricorso a delle strategie difensive, e spesso si tende a privilegiarne alcune invece che altre, ovviamente questo dipende dalle caratteristiche di base della personalità: infatti l’individuo ostile e diffidente, che tende a vedere ovunque complotti ai suoi danni, ricorre a meccanismi di difesa come la proiezione; invece l’invidioso che sottolinea  sempre gli aspetti negativi dell’altro utilizza la svalutazione.

Ovviamente per permettere che si verifichi un benessere psichico in toto è necessario che l’Io possa funzionare in modo armonico ed economico. Per riuscire a comprendere a fondo il concetto di meccanismo di difesa è necessario far riferimento al modello strutturale proposto da Freud.

Nel modello strutturale si possono riconoscere tre istanze psichiche: Es, Io, SuperIo.

L’Es è un “calderone in ebollizione” di energie grezze, non strutturate, istintuali;

L’Io comprende una serie di funzioni regolatrici che hanno il compito di tenere sotto controllo le pulsioni dell’Es; è in parte conscio ma per quanto attiene ai meccanismi di difesa è inconscio. Le difese inconsce dell’Io non guadagnano nulla nell’essere scoperte e rivelate; la loro presenza discreta, invisibile nella vita psichica dell’individuo è perfettamente accettata (ego-sintonica) anzi rappresentano un elemento centrale nell’organizzazione della personalità.

Il SuperIo è una serie di valori morali e atteggiamenti autocritici organizzatisi intorno alle immagini genitoriali interiorizzate.

L’Io con l’aiuto delle presenze genitoriali interiorizzate nel SuperIo, mantiene rimossi e regola gli istinti primitivi dell’Es per conservare la sicurezza nel mondo degli altri. Il risultato è un mondo psichico per lo più ignoto a sé stesso fin quando le pulsioni sessuali e aggressive, da cui ci si è difesi, non cominciano a premere e a creare i sintomi nevrotici: “il ritorno del rimosso”. La nevrosi è l’esito di un compromesso che viene raggiunto inconsciamente dai tre elementi complementari e antagonisti allo stesso tempo. L’Io elabora una strategia che consenta una certa quota di gratificazione pulsionale, ma la incanala attraverso un sistema complesso di accorte difese. L’Io camuffa l’aspetto delle pulsioni dell’Es in modo da evitare la censura sociale e allo stesso tempo mantenere le pulsioni sotto un attento controllo.

meccanismi di difesa sono funzioni dell’Io del soggetto destinate a proteggerlo dalle richieste istintuali eccessive dell’ES o da un’esperienza pulsionale troppo intensa percepita come pericolo. I meccanismi di difesa si formano nel corso dell’infanzia quando si presenta una minaccia proveniente dal mondo interno e più raramente dalla realtà esterna. Al fine di tenere lontano dalla consapevolezza impulsi sessuali e aggressivi il soggetto utilizza strategie appropriate funzionali all’evitamento dell’ansia, o più propriamente dell’angoscia (“Angst”), altrimenti indotta dall’emergere di impulsi incompatibili con la realtà.
Tali meccanismi costituiscono delle operazioni di protezione messe in gioco dall’Io per garantirsi la propria sicurezza. Avendo un’importante funzione di adattamento, entrano in gioco anche in condizioni normali, andando così ad influenzare in modo determinante il carattere e, di conseguenza, il comportamento di ciascun individuo. Per Freud, la sostanza della personalità è fatta di pulsioni e difese

I meccanismi difensivi operano a un livello automatico e inconscio; raramente svolgono la loro azione separatamente, presentandosi solitamente in maniera combinata, al fine di escludere dalla consapevolezza ciò che risulta inaccettabile, angoscioso, traumatico.

Spesso anche nel linguaggio comune si tende a pensare che le difese sono qualcosa di negativo, che serve a difendersi a scapito dell’affettività e delle relazioni con gli altri. Differentemente, i meccanismi di difesa diventano patologici solo quando acquistano un carattere estremamente rigido, inefficace e non variegato, compromettendo così la flessbilità, l’armonia e l’adattamento del funzionamento mentale.

Essi sono piuttosto strutturanti la personalità del soggetto e di conseguenza necessari per uno sviluppo sano.

 I meccanismi di difesa costituiscono l’insieme delle tecniche di cui l’Io si serve nei suoi conflitti sfocianti eventualmente nella nevrosi; la rimozione è solo un particolare meccanismo di difesa. Si tratta quindi di un vero e proprio sistema di lavoro, organizzato e organizzante la personalità dell’individuo.

Tra le motivazioni e i pericoli da cui l’Io si difende:
– Paura della forza degli istinti, a volte l’Io mette in atto meccanismi di difesa perché sente gli istinti, le pulsioni, troppo potenti o perché sente di non potersi fidare o della propria capacità di gestirli o dell’aiuto del Super-Io.

– Angoscia proveniente da pericoli e minacce esterne, dagli oggetti della realtà.
– Angoscia morale nei riguardi del Super-Io.
– Pericoli legati alle esigenze e ai bisogni di sintesi dell’io quando c’è un conflitto tra tendenze opposte, quali omosessualità e eterosessualità, attività e passività.

Da ciò si ricava che i meccanismi di difesa agiscono non solo nei riguardi degli istinti ma anche degli affetti.
Per quanto concerne il rapporto meccanismi di difesa-malattia va fatta un’importante distinzione tra difese cosiddette primitive, primarie, e difese evolute, secondarie (intendendo primarie e secondarie in senso evolutivo e non in base all’importanza).

Le prime sono quelle che si formano nei primi anni di vita del bambino, sono generalizzanti e totalizzanti in quanto il bambino è “indifeso” nei confronti della realtà interna ed esterna, e per questo è costretto a ricorrere a meccanismi di maggior potere protettivo, che agiscono in maniera globale, andando a limitare enormemente la struttura del soggetto. Tale utilizzo è assolutamente naturale, fisiologico e necessario nei primi anni di vita, ma anche successivamente si possono incontrare in chiave riparativa e funzionale. Si pensi alla situazione del lutto, in cui viene operata una scissione tra buono e cattivo relativamente al prima e dopo la perdita del proprio caro che serve a superare ed elaborare il dolore. Solo il ricorso massiccio ed esclusivo a questi meccanismi può compromettere significativamente l’Io del soggetto e il suo rapporto con la realtà. Tra questi vi sono: scissione dell’oggetto, negazione della realtà psichica, identificazione proiettiva.

Le seconde più evolute si formano a partire dalla fase di latenza (intorno ai sei anni) con l’avvento della rimozione che conduce nell’oblio i primi anni di vita del bambino. Queste sono indicative di una maturità raggiunta dal soggetto, in quanto nel loro compito difensivo vanno a limitare solo una piccola parte dell’Io sia nei riguardi della realtà che della sua identità. Anche in questo caso, l’uso eccessivo solo di alcuni meccanismi di difesa rischia di distorcere la realtà e impoverire l’Io. Oltre alla rimozione, tra di essi vi sono sublimazione,formazione reattiva, isolamento, razionalizzazione.

Con questa distinzione viene superata la prima posizione adottata da Freud, in base alla quale vi sarebbe una corrispondenza tra qualità della malattia nevrotica e qualità della difesa. La valutazione della malattia dipende dalla quantità e dalla flessibilità/rigidità dei meccanismi e non semplicemente, banalmente dal tipo.

Le princièpali difese sono:

Rimozione: esclusione dalla coscienza di rappresentazioni, desideri, fantasie o sentimenti inaccettabili connessi a una pulsione il cui soddisfacimento sarebbe in contrasto con altre esigenze psichiche e giudicato pericoloso. Svolge la sua azione sia escludendo dalla consapevolezza ciò che è già stato sperimentato a livello conscio, sia esercitando un controllo su idee e sentimenti prima che questi raggiungano la consapevolezza. E’ un meccanismo evoluto, nato dalla risoluzione edipica e dalla costituzione del Super-Io (rimozione primaria), che presuppone la presenza di un mondo rappresentazionale e simbolico. La rimozione può verificarsi in qualsiasi momento della vita e non implica necessariamente un esito patologico, anzi è funzionale alla semplificazione della nostra vita quotidiana. La rimozione è il meccanismo basilare delle nevrosi poiché dal suo fallimento e dalla sua sostituzione parziale con altre difese evolute dipende la formazione delle varie malattie nevrotiche.

Regressione: difesa da un’angoscia attuale mediante tecniche di gratificazione che appartengono ad uno stadio psichico precedente o infantile. Ritorno a un livello di sviluppo e di funzionamento mentale più antico e primitivo. Tale processo è strettamente legato all’ipotesi che nel corso dello sviluppo psicologico l’individuo passi attraverso una serie di fasi, ciascuna con le proprie e specifiche caratteristiche istintuali, egoiche e superegoiche. La regressione è solitamente considerata sotto due punti di vista. La regressione libidica consiste nel ritiro a una fase precedente di organizzazione istintuale (fissazione) e si verifica quando l’individuo non è in grado di affrontare un normale e biologico salto maturazionale. La regressione dell’Io è il ritorno a modalità di funzionamento mentale tipiche di un periodo precedente. Le cause della regressione sono molteplici, ma tutte legate a delle pressioni interne ed esterne: momenti di difficoltà, sentimenti spiacevoli (ansia, colpa, frustrazione), eventi di natura fisica (malattia, stress). Il ritorno simbolico a periodi in cui ci sono state esperienze piacevoli e soddisfacenti permette al soggetto di evitare la situazione critica. La regressione è essenziale anche nel trattamento psicoanalitico poiché consente di ritornare alle fasi più primitive dello sviluppo per rivivere e conseguentemente elaborare i conflitti non risolti nella relazione transferale con l’analista.

Formazione reattiva: trasformazione di un desiderio o impulso inaccettabile nel suo opposto. Questo meccanismo si sviluppa a partire dal periodo di latenza per neutralizzare gli impulsi aggressivi o libidici. Essa è parte integrante dell’organizzazione del carattere dell’individuo. Diventa patologica quando si presenta in forma rigida ed esclusiva, accompagnata da sofferenza nel caso in cui non si riesce a mettere in atto i comportamenti reattivi. Ad esempio, le esigenze di pulizia eccessive sono una formazione reattiva dal desiderio massiccio di sporcare.

Isolamento dell’affetto: separazione del pensiero o dell’esperienza sgradevole dalla sua carica affettiva. Un ricordo traumatico può essere facilmente richiamato alla mente ma è privato dei sentimenti concomitanti eccessivamente intensi. L’isolamento priva il pensiero della sua forza motivazionale e quindi dello scopo: le idee sembrano estranee, l’azione si oppone e il senso di colpa può essere tenuta a bada. La rappresentazione rimane cosciente, seppur disturbante, poiché è privata di ogni connessione emotivamente carica. L’isolamento può verificarsi in condizioni normali quando alcuni contenuti ideativi (morte, sessualità, aggressività) sono talmente angosciosi e angoscianti da obbligare il soggetto a prendere una distanza affettiva. Nella patologia, tale meccanismo si ritrova in particolare nella nevrosi ossessiva.

Annullamento retroattivo: annullamento di pensieri, parole, gesti o azioni mettendo in atto comportamenti e pensieri dal significato opposto, con valore espiatorio. Processo attivo consistente nel compiere un’azione, gesto o rituale per cancellare magicamente atti o pensieri sentiti come inaccettabili in quanto legati a rappresentazioni disturbanti. Alla base vi è il pensiero magico, in un’azione simbolica viene agita per capovolgere o cancellare un pensiero o un’azione compiuti, come se non fossero mai esistiti o accaduti. L’annullamento è un meccanismo molto regressivo, in quanto come nel bambino piccolo, opera a livello dell’onnipotenza magica del pensiero e dell’azione. Tipico negli atti di scongiuro del superstizioso e caratteristico dei pazienti ossessivo-compulsivi.

Introiezione: processo inconscio attraverso il quale un oggetto esterno viene simbolicamente preso dentro di sé e assimilato come parte di se stessi. Consiste nella assimilazione della rappresentazione dell’oggetto, nella rappresentazione del Sé, rendendo così indistinti e confusi i confini tra la rappresentazione del Sé e dell’oggetto. Di conseguenza il soggetto può avere dubbi circa la propria identità e separatezza. Nel bambino si tratta di un movimento elaborativo ed evolutivo che consiste nel far entrare una quantità sempre maggiore di mondo esterno all’interno dell’apparato psichico. Il bambino fa sue, assimila i suoi genitori con i loro divieti, regole e valori. Differentemente nell’adulto, l’introiezione può dar luogo alla creazione di fantasmi vissuti come esterni al Sé.

Identificazione: processo mentale automatico ed inconscio mediante il quale il soggetto acquisisce caratteristiche proprie di un’altra persona, assume tratti, qualità e aspetti propri di un altro oggetto. Si deve distinguere l’identificazione, che presuppone l’introiezione di aspetti o figure della realtà esterna, dall’imitazione, che non va a costituire tratti di personalità ma si mantiene superficiale. L’identificazione è un meccanismo che accompagna la maturazione e lo sviluppo mentale, aiuta nei processi di apprendimento e nell’acquisizione dei propri interessi e ideali. Inizialmente il bambino si identifica con i genitori, successivamente con altre figure importanti affettivamente. Può avvenire sia con un oggetto perduto che con un oggetto presente e rassicurante, ma perché si possa parlare di identificazione è necessario che l’individuo sappia distinguere tra sé e gli altri, processo di riconoscimento che avviene solitamente nei primi anni di vita.

Proiezione: attribuzione ad altri di un proprio aspetto ritenuto negativo, per cui il soggetto può biasimarlo in altri ritenendosi immune. I propri impulsi e sentimenti inaccettabili sono attribuiti al mondo esterno, e di conseguenza percepiti come appartenenti ad un’altra persona. La proiezione agisce in ogni momento della vita psichica, sia in fasi molto primitive dello sviluppo infantile, sia in fenomeni non patologici (animismo e superstizione). Diventa evidente e patologica quando comporta una perdita dell’esame di realtà come nella paranoia.

Rivolgimento contro se stessi: processo difensivo che non impedisce a pulsioni e impulsi di accedere alla consapevolezza (come fa la rimozione), ma sposta l’oggetto della pulsione dall’esterno all’interno, dall’altro al Sé. Si manifesta in maniera evidente nel masochismo, nella depressione o in forme meno gravi, autolesionismo, facilità agli incidenti. In questo modo, rimangono oscuri al soggetto sia l’identità dell’oggetto a cui era rivolta originariamente la pulsione, sia il sentimento correlato ad esso.

Scissione: separazione dell’oggetto in virtù della sua ambivalenza in modo da poter dirigere sulle parti scisse gli opposti sentimenti che ispira. Processo inconscio che separa attivamente i sentimenti contraddittori, le rappresentazioni di sé e degli oggetti “buone”, costituite sotto l’impulso della libido, da quelle “cattive”, costruite sotto l’impulso dell’aggressività. E’ presente, secondo M.Klein, nell’infanzia durante la posizione schizoparanoide; la scissione permette al lattante di separare il buono dal cattivo, il piacere dal dispiacere, l’amore dall’odio, al fine di preservare le esperienze, gli affetti, le rappresentazioni di sé e degli oggetti positive. E’ in generale considerata la difesa basilare e principale della psicosi, della patologia narcisistica e degli stati limiti e contribuisce massicciamente a compromettere l’esame di realtà.

Sublimazione: spostamento di una pulsione sessuale o aggressiva verso una meta socialmente accettata e valorizzata. L’energia pulsionale libidica e aggressiva viene neutralizzata e soddisfatta, deviandola verso nuovi scopi o oggetti socialmente e culturalmente più accettabili per l’Io e per il Super-Io. La creatività artistica e intellettuale è un esempio classico di sublimazione. E’ un processo normale e non patologico; l’unico meccanismo difensivo che costituisce solo tratti di personalità sani e integrati. Chiaramente, dei fallimenti in tale processo possono portare allo sviluppo di perversioni, comportamenti psicopatici e o disturbi dell’adattamento.
A questi Anna Freud ne ha aggiunti degli altri che implicano un’interazione tra l’individuo e il mondo.

L’identificazione con l’aggressore: è una delle armi più potenti dell’Io per gestire gli oggetti esterni generatori di angoscia. In questo modo il bambino gestisce la paura e il timore nei riguardi della figura esterna, trasformandosi da colui che viene minacciato in colui che minaccia.

Ascetismo ed intellettualizzazione: tipiche dell’adolescenza, queste difese proteggono dalla paura della forza degli istinti puberali. Nel primo caso, l’adolescente rifiuta di sperimentare i vissuti tipici del periodo e si ritira nel suo mondo interiore. Nel secondo caso si si rifugia in attività intellettuali per esercitare un controllo su contenuti affettivo-istintuali e ridurre così ansia e tensione. Ad esempio le speculazioni filosofiche e religiose degli adolescenti servono proprio al fine di regolare e limitare le intense sensazioni corporee e i profondi conflitti interni. Di per sé non è patologica, ma può diventarlo se conduce a una separazione netta ed invalicabile tra idee e affetti.

In conclusione, i meccanismi di difesa non vanno intesi come qualcosa di patologico a prescindere. Essi sono strutturanti l’identità del soggetto e gli servono per affrontare le difficoltà che incontra attimo dopo attimo. Solo quando il funzionamento diventa pervasivo, rigido e globale c’è il rischio di un’evoluzione patogena. In tali casi, sarà necessario intervenire con il trattamento psicologico per portare in luce i meccanismi difensivi del soggetto e aiutarlo a sostituirli con altri più funzionali, che non significa eliminarli. Senza i meccanismi di difesa l’individuo sarebbe in balia di pulsioni e pericoli e l’unico esito sarebbe l’annientamento.

Disturbi di personalità

Con il termine personalità ci si riferisce al particolare modo di una persona di comportarsi e di percepire se stessa e gli altri: è la manifestazione evidente dell’attività di strutture psicologiche sottostanti che possono essere pensate come costituite da immagini di sé in relazione agli altri. Queste strutture psicologiche non sono altro che l’internalizzazione di modelli relazionali, affettivi, cognitivi, motivazionali e morali. La combinazione di questi elementi forma quello che viene definito come “carattere“, e questa combinazione di elementi contribuisce a definire il modo in cui  un individuo agisce, interpreta e percepisce il mondo.

In particolare le interazioni (emotivamente significative) tra il bambino e le figure di accudimento importanti (la madre e il padre, ma non solo) ripetendosi nel tempo, portano alla creazione di rappresentazioni specifiche di sé e degli altri intrise della qualità emotiva con cui sono state inizialmente sperimentate. L’emozione associata a queste rappresentazioni di interazioni può variare da un amore intenso ad un odio estremo.

È sempre utile precisare che, formandosi nei primi anni di vita, queste rappresentazioni non sono riproduzioni accurate e fedeli della realtà: tendono invece a rappresentare in modo piuttosto estremizzato le interazioni e gli affetti che le riguardano. Di conseguenza quando un evento successivo attiva quella particolare rappresentazione, la persona tende a sperimentarla in modo estremo e semplicistico, del tutto scollegata da una diversa rappresentazione di sé e dell’altro che potrebbe essere attivata da un evento differente (ad esempio un individuo può sentirsi molto felice e apprezzato quando un amico gli sorride ma può sentirsi triste e inutile se lo stesso amico è in ritardo all’appuntamento: le immagini corrispondenti dell’amico sono di una persona amorevole nel primo caso e di una persona rifiutante nel secondo).

Nel caso di un sano sviluppo psicologico, queste molteplici rappresentazioni iniziali, estreme e disconnesse tra loro, progressivamente si integrano in immagini interne di sé e degli altri più complesse e realistiche.

Ci si accorge che le persone hanno contemporaneamente qualità buone e cattive, che è possibile sperimentare delle delusioni riguardo se stessi o gli altri pur continuando ad apprezzare l’esistenza di buone qualità. Si fa esperienza del fatto che provare emozioni negative non distrugge la capacità di continuare a provare emozioni positive e che il proprio stato emotivo in relazione agli altri può essere complesso, con una contemporanea varietà di emozioni di differente natura (e non solo tutte positive o tutte negative).

Un sano sviluppo psicologico, inoltre, porta ad acquisire un senso di sé, un’identità integrata, coerente e stabile nel tempo basata su una valutazione realistica di ciò che si è in cui gli affetti positivi non vengono soffocati da quelli negativi e la forza dell’Io rende possibile affrontare le sfide e le delusioni della vita.

Nel corso dello sviluppo psicologico normale le rappresentazioni estreme di sé e dell’altro tendono ad integrarsi in un insieme unitario che conduce ad un modo più maturo e flessibile di percepire se stessi e gli altri.

Nello sviluppo psicologico che porta a disturbi della personalità invece, vi è un fallimento nell’integrazione di tali rappresentazioni più estreme. Le rappresentazioni interiorizzate associate ad affetti opposti restano separate tra loro e continuano ad esistere indipendentemente le une dalle altre: la percezione del mondo allora è che questo viene vissuto in termini molto concreti, “tutto o niente”, “bianco o nero”, senza gradazioni e spesso senza continuità. Gli impulsi vengono percepiti come troppo concreti, hanno poca possibilità di venire rappresentati psichicamente e perciò spesso esitano in una azione compulsiva e impulsiva (“non potevo fare a meno di”).

Questo vissuto è forse più drammaticamente sperimentato da individui con personalità borderline, ma si osserva anche in individui con altri disturbi di personalità come il disturbo narcisisticoistrionico e paranoide.

La mancanza di un senso di identità complesso, realistico, stabile e ben integrato porta ad indebolire le funzioni dell’Io: le conseguenze sono labilità emotiva, impulsivitàdifficoltà a tollerare ansia e delusione, estrema sensibilità al rifiuto e tutta una serie di altri sintomi comuni ai diversi disturbi di personalità.

Purtroppo il mancato raggiungimento di un senso integrato e stabile di sé e degli altri porta quasi sempre a importanti difficoltà all’interno delle relazioni interpersonali, con i familiari, con il partner, con i colleghi o con gli amici.

Spesso è necessaria una psicoanalisi o una psicoterapia psicoanalitica.

In alcuni casi il disturbo di personalità è meno grave: si parla di patologie della personalità di alto livello o di rigidità della personalità. Qui le rappresentazioni interne dell’individuo sono meglio integrate  ed il senso di identità è maggiormente consolidato: i tratti disadattivi possono presentarsi sotto forma di inibizione di comportamenti normali (ad es. un atteggiamento di generale passività nella vita personale o professionale) oppure di esagerazione di alcuni comportamenti (ad es. un perentorio bisogno di controllare sempre tutto e tutte le persone con cui ha a che fare): in altri termini c’è qualche elemento chiave che non si è potuto integrare nelle rappresentazioni interne e quindi si osserva uno stile caratteriale, rigido, poco o per nulla flessibile. Vi è una diminuita capacità di adattarsi alle fonti interne ed esterne di conflitto e di ansia, una difficoltà a prendere le cose “per quello che sono” o a “lasciar perdere”, una improduttiva tendenza alla preoccupazione eccessiva. Talvolta invece si osserva una sorta di “disinvolta indifferenza” per alcune emozioni poco piacevoli associate a situazioni dolorose o conflittuali. Altre volte si osservano inibizioni relative alla sessualità, all’intimità e al successo professionale, anche sotto forma di autovalutazioni distorte.

Si tratta comunque, nel caso dei disturbi di personalità di alto livello, di persone con una certa attitudine a impegnarsi in un trattamento a lungo termine, con una relativamente ben sviluppata capacità di mettersi in discussione, con buona capacità di stabilire e mantenere un rapporto terapeutico e in grado  di comprendere e valutare la natura simbolica del pensiero oltre che di saper controllare adeguatamente gli impulsi.

In questi casi è assolutamente indicata una psicoanalisi  o una psicoterapia psicoanalitica  in grado di stimolare le ansie e di poterle analizzare in una situazione sicura e contenitiva. Quando il paziente non ha più bisogno di reprimere la propria esperienza interna per evitare le ansie ad essa associate, allora sarà meno rigido e inibito e più libero.

I motivi per i quali si struttura un disturbo della personalità in un particolare individuo sono molteplici e complessi: fattori temperamentali biologicamente determinati (genetici) si combinano e interagiscono con fattori ambientali in maniera tale da portare a strutture psicologiche relativamente scisse e non completamente integrate.

Le rappresentazioni interne di genitori disponibili sono totalmente scisse da rappresentazioni interne di figure di accudimento frustranti in relazione ad un sé umiliato e privo di aiuto. Rappresentazioni così estreme sono ovviamente impregnate di potenti stati affettivi: affetti di amore nel primo caso e di odio nel secondo. Poiché il paziente non ha alcuna consapevolezza del proprio mondo interno e della sue rappresentazioni scisse e non integrate, la sua reazione agli eventi comporta una spiacevole oscillazione tra gli estremi positivi e negativi della gamma dei propri stati affettivi. Queste oscillazioni sono alla base dell’instabilità soggettiva e determinano specifici sintomi individuali come rapporti interpersonali caoticilabilità emotiva, pensiero del tipo “bianco o nero”, rabbia ed una certa tendenza ad avere una visione distorta o incompleta della realtà.

Se si hanno delle relazioni sane con delle persone significative si manifesta una stabilità mentale e rapporti profondi, caratterizzati da calore ed empatia.

La dispersione dell’identità, al contrario, consiste in un concetto di Sé mal integrato in relazione agli altri significativi. Si manifesta, di conseguenza, con un comportamento contraddittorio, che non può essere integrato, o attraverso percezioni superficiali, piatte e impoverite degli altri. Un criterio estremamente importante per la valutazione dell’identità sono le manifestazioni non specifiche di debolezza dell’Io, ovvero lo scarso controllo dell’angoscia e degli impulsi e la mancanza di canali sublimatori maturi.

L’organizzazione difensiva, ovvero i meccanismi di difesa, sono operazioni mentali più o meno consapevoli volti a risolvere un conflitto emotivo intra o extra psichico. Questi modi di organizzarsi della mente sono più o meno stabili e determinano il modo del soggetto di trattare situazioni che lo coinvolgono emotivamente.

I meccanismi di difesa immaturi detti anche primitivi si caratterizzano per una scarsa capacità di riflettere e accettare i propri conflitti psichici, tipici di modalità infantili di funzionamento mentale. Essi derivano dalla scissione delle rappresentazioni di sé e dell’altro in conflitto tra loro che non sono integrate dalla mente dell’individuo, ma parzialmente negate alla consapevolezza.

Le difese mature, invece, sono le strategie psichiche più creative e funzionali per trattare i conflitti emotivi ed affettivi, denotano una capacità del soggetto di tollerare i propri sentimenti contraddittori e ambivalenti e di trovare soluzioni di compromesso. Le difese mature consentono una visione della realtà adeguata e non ne comportano una massiccia distorsione.

Le principali difese mature sono:la rimozione, lo spostamento, la formazione reattiva, l’intellettualizzazione, l’isolamento, la razionalizzazione e l’annullamento retroattivo.

L’esame di realtà si definisce come la capacità di differenziare il Sé dal non Sé, in relazione alle norme sociali condivise e al modo in cui si percepisce il mondo esterno
Di seguito, saranno presentate le tre organizzazioni di personalità in relazione ai rispettivi criteri sopra menzionati.

1 Organizzazione psicotica di personalità

La psicosi, o per meglio dire le psicosi, sono quelle forme di grave disturbo psichico caratterizzate da una più o meno estesa frattura con la realtà e conseguentemente da un modo primitivo di funzionamento della mente e di costruzione della propria esperienza soggettiva.

Secondo Kernberg l’organizzazione psicotica di personalità è caratterizzata dalla scarsa integrazione delle immagini di sé e dell’altro, da un uso massiccio di meccanismi di difesa centrati sulla scissione e dalla perdita dell’esame di realtà. Le difese immature utilizzate dall’organizzazione psicotica hanno come scopo quello di mantenere separate le rappresentazioni buone da quelle persecutorie poiché queste ultime potrebbero annientare e distruggere le immagini interne idealizzate. Le difese messe in atto consentono di proteggere la persona da una parte buona dei propri oggetti interni.

La struttura psicotica è caratterizzata principalmente dalla presenza di deliri e di allucinazioni e la perdita dell’esame di realtà è la manifestazione della loro indifferenziazione interna, tra rappresentazioni di sé e rappresentazioni dell’altro, in presenza di affetti ed emozioni particolarmente intensi.

L’organizzazione strutturale psicotica è tipica dei pazienti che presentano una schizofrenia o altra forma psicotica.  L’angoscia interna, in questo caso, è talmente pervasiva da inondare l’Io, le difese, allora, servono a proteggere il paziente dalla disintegrazione totale e dalla fusione tra il Sé e l’oggetto.Nel paziente psicotico convivono parti sane accanto a parti francamente psicotiche, caratterizzate da difese primitive, che, a partire dal rigetto conducono a meccanismi di negazione della realtà, ad identificazioni proiettive massicce e a meccanismi di scissione che vanno fino all’autoframmentazione del sé, e che sono responsabili dei cosiddetti sintomi produttivi: deliri, allucinazioni, disordini formali del pensiero, grossolani disturbi del comportamento.

Il problema centrale, alla base di tutte le psicosi, è la grande difficoltà nella costruzione del rapporto con gli altri, con il proprio corpo e con il Mondo. In tale ottica i sintomi psicotici  possono essere considerati come un tentativo di compenso a questo problema centrale: compenso sia a livello biologico (sistemi neurologici abitualmente inibiti che prenderebbero il sopravvento) sia a livello esistenziale, compensando la perdita della realtà con la creazione di una neo realtà più vivibile e quindi in grado di ricostruire una relazionalità, seppure patologica, che protegga dal ritiro autistico e dal rischio di implosione e di estrema frammentazione.

Secondo la maggior parte degli psicoanalisti non si nasce psicotici, ma lo si può diventare per varie concause che sopraggiungono nel corso dello sviluppo: a partire da certe caratteristiche dell’intersoggettività primaria, che non ha permesso all‘infans di fornirsi di un apparato parastimoli, in grado di modulare dapprima le esperienze sensoriali-emotive e poi quelle affettive, percepite, perciò, come invasive e persecutorie, e quindi da rigettare. La madre, per esempio, che lascia piangere il bambino per troppo tempo, o, ripetutamente non è in grado di distinguere se il bambino piange perché ha fame o ha bisogno di essere cambiato o di essere tenuto in braccio, e non fornisce tempestivamente la risposta adeguata, non permette che si sviluppi nel bambino una fiducia di base nel poter ricevere risposte alle domande corporee, che i suoi bisogni e desideri possano essere esauditi. Questo porta alla lunga ad un disinvestimento libidico del corpo, con conseguente perdita della funzione centrale del principio di piacere come regolatore dell’attività psichica e fonte di  investimenti del mondo.

Alla luce di queste considerazioni, si comprende perché il processo psicotico comincia spesso nell’infanzia attraverso il meccanismo del ritiro psichico (De Masi, 2018), in quei bambini che non hanno mai sviluppato quella fiducia in se stessi che permette di sentirsi “visti” e significativi per gli altri, legittimati ad avere un loro posto nel mondo. Per sfuggire a questa realtà intollerabile, questi bambini e adolescenti, si isolano e spesso creano un mondo alternativo di fantasie dissociate in cui si rifugiano (Steiner,1993).

Il ritiro offre un’alternativa al mondo relazionale ed ai conflitti ad esso legati (di gelosia, invidia, competizione ecc.) trasformando la mente, da strumento per produrre pensieri (che aiutino a gestire la realtà interna ed esterna), in un organo sensoriale, capace di creare un mondo alternativo, dominato da un piacere speciale e regressivo cui è facile attingere. Da qui l’irriducibilità di alcuni deliri.

2 L’organizzazione nevrotica di personalità

L’organizzazione nevrotica della personalità è caratterizzata da un’identità non diffusa, dall’uso di meccanismi di difesa maturi centrati sulla rimozione e presentano un saldo rapporto con la realtà. Sono individui capaci di relazioni profonde, che hanno una certa forza dell’Io che gli permette di tollerare l’angoscia e di sublimare i propri impulsi. Sono persone spesso efficaci e creative sul lavoro e hanno la capacità di integrare amore e sessualità. La loro vita è a volte disturbata da sensi di colpa inconsci che possono essere connessi all’intimità sessuale. Questo tipo di struttura spesso si ritrova in manifestazioni cliniche quali: le personalità isteriche, depressivo-masochistiche, ossessive, evitanti e fobiche.

Le nevrosi includono tutte quelle categorie patologiche meno gravi rispetto alla psicosi e verso cui la differenza fondamentale riguarda il livello di contatto che l’individuo mantiene con la realtà.

I pazienti nevrotici percepiscono infatti la realtà correttamente, ma si sentono comunque spinti ad agire in modo incongruo rispetto ad essa, esibendo dei comportamenti caratterizzati da

  • Ansia: paura non indirizzata verso un oggetto definito o un oggetto realmente minaccioso.
  • Fobia: paura intensa e irrazionale nei confronti di particolari situazioni, luoghi o oggetti.
  • Ossessioni: pensieri ripetitivi e intrusivi che impediscono al soggetto di svolgere le normali azioni quotidiane.

Con il termine nevrosi s’intende quindi un disturbo psichico vicino alla realtà di tutti noi, cioè presente in persone aventi un funzionamento mentale e un contatto con la realtà adeguati, ma caratterizzato dall’insorgenza di sintomi ansiosi con caratteristiche e gravità differenti, scatenati da situazioni innocue ma che sono in grado di rievocare conflitti del passato non risolti per il soggetto.

I temi conflittuali principali riguardano l’appagamento e la frustrazione, in altre parole le esperienze provate nell’infanzia nelle quali i desideri e le aspettative fondamentali sono stati appagati in maniera ambivalente o addirittura disattesi dalle figure significative, in primo luogo i genitori.

La reazione ansiosa in età adulta può essere talvolta così potente da diventare paralizzante quando è connessa ad angosce più profonde (come l’angoscia di morte o i tabù dell’incesto), ma resta incomprensibile alla parte cosciente del soggetto.

Come ha ben chiarito la teoria psicanalitica freudiana, a scatenare la reazione nevrotica non è l’oggetto in sé, ad esempio l’ascensore o gli spazi affollati, ma ciò che la situazione o l’oggetto rappresentano simbolicamente per l’inconscio.

L’oggetto scatenante è l’espressione in superficie di un desiderio inconscio inaccettabile che quindi è “trasformato” in qualcos’altro, più tollerabile. Ad esempio, la paura dello sporco potrebbe rappresentare la paura del proprio soddisfacimento sessuale perché le persone nevrotiche non hanno appreso il modo di soddisfare i propri desideri sessuali senza temere di violare i tabù e le norme religiose e sociali. Nella nostra mente le varie parti dell’inconscio (gli affetti, i pensieri, i desideri, le aspettative e le paure) non coesistono in modo inerte ma si bilanciano e contrappongono, interagiscono continuamente fra di loro configurando ciò che viene chiamato conflitto inconscio.

È la natura conflittuale del nostro inconscio che costituisce le diverse forme nevrotiche (ad es. l’esigenza della sincerità ma la paura di ferire qualcuno, il bisogno del soddisfacimento dei nostri desideri e l’inibizione attuata dalla famiglia, dalla società o dalla religione).

E’ necessario che i bisogni fondamentali del bambino raggiungano un equilibrio stabile, una sintesi pacifica fra due opposti, al fine di offrire all’individuo adulto gli strumenti necessari per gestire le difficoltà della vita e per tessere delle relazioni significative.

Tra questi desideri contrapposti possiamo riconoscere quelli di

  • dipendenza/indipendenza;
  • competizione/paura del confronto;
  • attività e dominio sull’altro/impotenza e sottomissione;
  • ricerca del piacere sessuale/colpevolizzazione e morale.

Gli eventi della vita adulta, perlopiù quelli spiacevoli (lutti, separazioni, incidenti) e in misura minore anche quelli piacevoli (laurea, realizzazione lavorativa e personale) diventano traumatici per la persona nella misura in cui questi rievocano i conflitti sepolti ai quali sono affettivamente collegati.

Il conflitto emerge quando l’integrazione fra le diverse parti inconsce non è avvenuta a causa di:

  • motivazioni incompatibili (ad esempio il bisogno di dipendenza e sicurezza affettiva e allo stesso tempo l’esigenza di autonomia);
  • bisogni e desideri giudicati negativamente dal Super-Io (ad esempio il bisogno del piacere sessuale e la colpa relativa);
  • sentimenti contraddittori verso lo stesso oggetto (ad esempio amore e odio verso una persona) o oggetti diversi (ad es. affinità con un genitore e timore di dispiacere l’altro).
  • rappresentazioni di sé contraddittorie.

Molte persone hanno dei disturbi nevrotici i quali, essendo lievi, non sono riconosciuti come tali. Spesso questi disturbi sono considerati congrui alla situazione, per esempio avere paura e sudare prima di un esame o essere molto timidi e inibiti durante le interazioni sociali.

In situazioni normali, le contrapposizioni inconsce sono facilmente superabili con un buon adattamento; vi sono tuttavia delle situazioni nella quale questo adattamento, senza un trattamento adeguato, non è possibile. Parliamo di quei conflitti psichici che si sono strutturati e consolidati nel corso della vita, continuando a operare inconsciamente condizionando il modo di vivere dell’individuo.

Il concetto di conflitto psichico occupa un posto predominante in tutte le aree della psicologia che hanno approfondito

  • la natura e le dinamiche dei conflitto;
  • le possibili soluzioni adottate dagli individui per risolverlo;
  • le conseguenze patologiche che possono derivare dalla presenza di conflitti troppo intensi e difficili da gestire.

La psicoterapia elimina i sintomi sulla base del presupposto che essi siano la sostituzione di una serie di bisogni troppo carichi affettivamente da essere riconosciuti, ai quali un processo psichico chiamato rimozione ha negato la possibilità di realizzarsi in maniera consapevole. Queste formazioni mentali inconsce non solo aspirano a esprimersi, ma aspirano a esprimersi in modo congruo al loro valore affettivo.

Con la psicoterapia è possibile portare alla luce il desiderio rimosso, e in questo modo lo stimolo esterno perde ogni potere ansiogeno poiché si riconduce a quello che effettivamente è nella realtà (ad es. “semplicemente” una piazza in una città, “semplicemente” un ascensore …).

Disturbo borderline di personalità

E’ caratterizzato da instabilità degli affetti e delle relazioni e da marcata impulsività. Le persone che ne sono affette hanno grande timore di essere abbandonate e dunque compiono sforzi disperati per evitare abbandoni reali o immaginari. Passano rapidamente dall’idealizzazione alla svalutazione delle persone in quanto sono inclini ad un cambiamento drammatico  e improvviso della loro visione degli altri.

l disturbo borderline è il più comune tra i disturbi di personalità ed è caratterizzato da un notevole impoverimento del funzionamento psicosociale e da un ampio utilizzo di trattamenti psichiatrici e/o psicoterapeutici. Il termine borderline inizialmente indicava una patologia che si colloca “al confine”  tra nevrosi e psicosi. Più recentemente tale termine  è apparso meno adeguato per la descrizione di questa complessa psicopatologia.  A tale proposito A. Correale (2012) ha proposto il termine “borderless” per sottolineare maggiormente  “ l’assenza di confine”  che si esprime con la ben nota disforia ed impulsività dei soggetti affetti da questo disturbo.

Secondo la diagnosi del DSM-IV il disturbo borderline è caratterizzato da una pervasiva instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore, da sentimenti cronici di  vuoto e di abbandono, sintomi dissociativi e rabbia immotivata ed intensa.

Altri criteri importanti per la diagnosi sono: la facilità agli agiti (spesso secondaria ad impulsività ed umore disforico), l’intolleranza alle frustrazioni, lo scarso controllo e consapevolezza delle emozioni, la difficoltà a percepire emotivamente l’altro e l’incapacità di identificarsi con esso,  la tendenza a sviluppare manifestazioni transferali burrascose.

Oltre alle configurazioni sopra menzionate va aggiunta la propensione, in forme e gradi diversi, dell’uso della sofferenza in senso vittimistico e vendicativo/rivendicativo in vista di un ipotetico risarcimento.

E’ utile affiancare a questi parametri l’individuazione  di specifici aspetti di carattere processuale che, a partire da situazioni traumatiche intese come fattori dinamico-etiologici fondamentali, strutturano la personalità del paziente colonizzando la sua mente con specifiche organizzazioni psicopatologiche (così come descritte da  vari autori tra cui Rosenfeld,  Meltzer e Steiner).

La ricostruzione della storia emotiva del paziente mostra spesso come queste organizzazioni mentali siano il risultato d’antiche situazioni d’intollerabile scacco evolutivo che, trasformandosi da situazioni traumatiche in stabili tratti di personalità, mantengono inalterate le condizioni di sofferenza del paziente in una posizione di estrema confusione interna determinando l’impossibilità di raggiungere ed utilizzare la posizione depressiva.

Da questo punto di vista è importante evidenziare che il trauma  si manifesta prevalentemente sotto  la forma d’assenza di risonanza e ricettività emozionale (o in alternativa  intrusività)  da parte degli oggetti primari di relazione. Il deficit di sviluppo dell’inconscio inteso come funzione che permette di comprendere le emozioni proprie e degli altri è  dovuto spesso nei borderline, a tali traumi precoci e ripetuti. In questi pazienti sono inoltre frequentemente osservabili stati di “dissociazione” mentale. Tali stati potrebbero essere definiti come un meccanismo di disintegrazione parziale del Sé (Winnicott, 1986),   una fuga  verso la fantasia dissociata ad occhi aperti.

Infine, per quanto concerne  la comprensione del disturbo (e la sua cura) è centrale nei pazienti borderline anche la condizione di deficit di sviluppo della mentalizzazione.

La mentalizzazione è una forma di attività mentale immaginativa che riguarda sé stessi e gli altri e che permette di comprendere e spiegare il comportamento in termini di stati mentali intenzionali (per es. bisogni, desideri, emozioni, credenze e motivazioni).

Nello sviluppo normale, la madre e il bambino sono coinvolti in un processo intersoggettivo che implica la comunicazione di stati affettivi  in cui la madre ha un ruolo vitale nel regolare,  modulare e rispecchiare adeguatamente gli stati emotivi del figlio. Da qui la necessità che il terapeuta si ponga come nuovo oggetto trasformativo per il paziente borderline che può riuscire  a trovare se stesso nella mente dell’analista inteso come essere pensante e capace di sentimento. Una rappresentazione che non si è mai totalmente sviluppata nella prima infanzia e che, probabilmente è stata in seguito ulteriormente danneggiata da esperienze interpersonali dolorose.

Nelle persone con funzionamento border line gli aspetti contraddittori del Sé e degli altri significativi sono tenuti separati; inoltre l’immagine e la percezione di Sé appaiono instabili e soggetti a frequenti fluttuazioni, e si presenta un esame di realtà compromesso in alcune situazioni emotivamente intense, stressanti o conflittuali. Il funzionamento dell’Io è intermittente, discontinuo e caratterizzato da una notevole debolezza che si evince dall’incapacità di controllare l’angoscia e gli impulsi.

I meccanismi di difesa sono prevalentemente arcaici e sono: scissione, proiezione, idealizzazione e svalutazione, negazione, acting-out, identificazione proiettiva. Secondo Kernberg, il meccanismo di difesa, maggiormente agito dalle persone con questa organizzazione di personalità, è l’identificazione proiettiva, una difesa complessa caratterizzata da tre momenti e basata sul fatto che aspetti propri sono disconosciuti e attribuiti a qualcun altro, ma in maniera differente rispetto alla semplice proiezione.

Nella relazione terapeutica le tre fasi si succedono in questo modo:
1. Il paziente proietta sul terapeuta una rappresentazione del Sé o dell’oggetto.
2. Il terapeuta si identifica, inconsciamente, con quanto proiettato, e si comporta in maniera conforme alla rappresentazione proiettata.
3. Il terapeuta,elaborato il materiale proiettato, lo interpreta e, in seguito, lo restituisce al paziente che lo reintroietta.

Alla base del processo di identificazione proiettiva è presente il desiderio inconscio di sbarazzarsi di una parte di sé e di metterla dentro a qualcun altro, proiettando fuori di sé parti definite “cattive”, che teme possano distruggere le altre parti “buone” del sé.

Disturbo narcisistico

Caratterizzato da grandiosità, ricerca di ammirazione e mancanza di empatia. Le persone che ne sono affette credono di essere superiori agli altri e si aspettano che gli altri li riconoscano come tali; la loro autostima in realtà è molto fragile  facendoli sentire molto sensibili alle critiche e umiliati.

Freud (1905) sosteneva che ciò che può risultare patologico nella vita adulta sia normale nel primo sviluppo dell’essere umano. Infatti, per tutta la sua infanzia il bambino ha bisogno di un adeguato nutrimento narcisistico (amore, cure, attenzione…) affinché possa gradualmente sviluppare un’identità autonoma e soggettiva (Sé coeso) e strutturare la propria mente (con la formazione di istanze e introietti integrati). Ciò che ci ha fatto capire Freud è che occorrono tempo e fatica affinché il bambino possa diventare capace di amare gli altri oltre che se stesso: tutto il suo progressivo sviluppo consisterà infatti nell’uscire sempre più da una condizione narcisistica quasi assoluta ad uno stato sempre più oggettuale (l’investimento affettivo sugli altri).

Nonostante il neonato sia biologicamente dotato di un primitivo “Sé nucleare” orientato e aperto già verso l’oggetto, seppur in modo rudimentale (Stern, 1985 [8]), egli, in una primissima fase, vive con la madre uno stato di simbiosi totale (Io ed Es, soggetto ed oggetto sono ancora in gran parte indifferenziati), in cui il suo senso d’esistere dipendente dal contatto e la fusione con la madre. Egli nel suo narcisismo si sente un essere onnipotente che trova il seno (e l’appagamento immediato del suo bisogno) proprio laddove lo crea allucinandolo nel momento del desiderio

In seguito l’onnipotenza originaria perduta viene spostata dal proprio Sé ai genitori che divengono l’esempio di felicità e di potere con cui il bambino desidera fondersi per acquisire le loro caratteristiche (Ideale dell’Io): egli si sente vuoto e impotente quando è separato dai genitori, motivo per cui cerca di mantenere un legame costante. La megalomania primaria viene abbandonata a favore di una maggiore relazione oggettuale che assicura al piccolo amore e protezione, a patto che egli impari a vivere all’altezza dell’ideale rappresentato e proposto dai genitori.

 

Con la crescita, l’idealizzazione cede il passo ad una visione sempre più realistica dei genitori (includendovi anche i difetti e i limiti), di modo che, con il superamento dell’Edipo e il consolidamento strutturale nel periodo di latenza, il bambino avrà fatto propri (all’interno di sé attraverso l’identificazione), le figure genitoriali (di solito quella dello stesso sesso), con la formazione di un’istanza psichica ben definita (Super-Io) con proprietà morali, normative (proibitive) e ideali (più attenuale). Da questa nuova istanza interiore l’adulto potrà ricevere gratificazione e approvazione narcisistica (come una sorta di guida interna), al pari del bambino quando riceveva esternamente l’approvazione e il riconoscimento dal proprio genitore a seconda di come si comportava.

Già Freud aveva visto come fattore predisponente al narcisismo l’incapacità da parte del genitore di vedere il bambino per quello che è, proiettandovi aspettative e desideri di ciò che dovrebbe essere, ossia come riflesso e appendice del proprio narcisismo personale. Infatti già molto presto il bambino comprende che le dimostrazioni affettive da parte dei genitori giungono proprio nel momento in cui egli mette in atto i comportamenti e le risposte che meglio soddisfano le loro aspettative.

Se il comune narcisismo è figlio della mancanza di “una particolare attenzione” genitoriale, le forme più gravi (come la psicopatia) provengono quasi sempre da storie di abusi o gravi traumi.

Tutto lo sviluppo del Sé del bambino procede grazie alla sintonizzazione al contenimento, all’empatia, alla funzione di “Io ausiliario” . Alterazioni eccessive di tali processi impediscono la costruzione e il consolidamento di strutture interne nella mente del bambino (oggetti buoni interiorizzati) in grado di garantirgli una certa sicurezza narcisistica e la fiducia e la guida per gli investimenti affettivi futuri.

 

Sono proprio le delusioni tollerabili (“le frustrazione ottimali”) che portano allo sviluppo di strutture interne che permettono al bambino di imparare a tollerare sempre più autonomamente le tensioni narcisistiche e ad autoregolarsi emotivamente (ad esempio per consolarsi e calmarsi o fornirsi sostegno e calore emotivo). Infatti, un’educazione che sia esageratamente permissiva ed indulgente o che ecceda in gratificazioni immediate alle richieste del bambino, ostacola il superamento del Sé grandioso, la sua onnipotenza e l’inevitabile frustrazione imposta dai limiti della realtà (sono sempre infatti la mancanza dell’oggetto e la tensione del desiderio ad instaurare il principio di realtà).

 

Kernberg (1975) descrive il narcisismo come l’effetto di eccessive frustrazioni infantili che nel tempo hanno lasciato un tale odio nei confronti del mondo esterno da avere portato il bambino a sviluppare una graduale ipercompensazione e un massiccio iperinvestimento reattivo sul Sé (grandioso), costretto a diventare capace di nutrirsi esclusivamente da solo, non potendo più aspettarsi nulla dagli altri (rimanendo tuttavia avidamente affamato di attenzione e affetto). In un certo senso il Sé grandioso è la risposta ipomaniacale del Sé depresso (dove l’euforia si alterna alla vergogna e alla d epressione), così come l’atto di svalutare, attaccare e umiliare l’altro può rappresentare la trasformazione attiva delle ferite narcisistiche che il bambino ha sperimentato passivamente durante la sua vita infantile (identificazione con l’aggressore), in una dinamica familiare narcisistica che esiste e si mantiene per generazioni.

 

Disturbo dipendente

E’ caratterizzato da un eccessivo e pervasivo bisogno di essere accuditi e protetti che determina un comportamento sottomesso e un costante timore della separazione. Pessimisti e dubbiosi tendono a sminuire se stessi e le proprie capacità. Temendo di perdere l’approvazione faticano ad esprimere il loro disaccordo. Nel caso in cui venga meno una relazione importante si affrettano a sostituirla con un’altra che fornisca loro il supporto emotivo di cui hanno bisogno.

 

 

Disturbo ossessivo-compulsivo

E’ caratterizzato da un’eccessiva preoccupazione per l’ordine, perfezionismo maniacale, accuratezza ed esigenze di controllo. Le persone che ne sono affette sono in genere coscienziose e inflessibili per quanto riguarda moralità, etica e valori.

Disturbo paranoide

Caratterizzato da sfiducia e sospettosità. Gli individui che ne sono affetti presumono di essere sfruttati o danneggiati dagli altri  anche quando non vi sono prove.  Hanno problemi nelle relazioni sociali ed un senso eccessivo dell’autonomia . Sono riluttanti a confidarsi con gli altri e ad entrare in intimità leggendo significati nascosti  umilianti e minacciosi in rimproveri e persino in complimenti benevoli.

 

Disturbo schizoide

E’ caratterizzato da distacco dalle relazioni sociali e da ridotta espressività emotiva. Gli individui che ne sono affetti appaiono indifferenti alle opportunità di stabilire relazioni strette. Preferiscono passare il loro tempo da soli. Appaiono altresì indifferenti alle critiche o all’approvazione e manifestano difficoltà ad esprimere la rabbia. Ciò contribuisce a dare l’impressione che manchino di emozioni.

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CHE COS’E’ LA PSICOANALISI?

La psicoanalisi è un approccio terapeutico basato sulla constatazione che gli individui sono spesso inconsapevoli di molti degli elementi alla base delle proprie emozioni e dei propri comportamenti.
Questi fattori inconsci possono essere fonte di difficoltà, che si manifesta a volte sotto forma di sintomi riconoscibili, altre volte attraverso tratti di personalità problematici, difficoltà lavorative, affettive o relazionali, disturbi dell’umore o dell’autostima.
La psicoanalisi basa il proprio metodo di trattamento sulla concezione di processi mentali inconsci. In origine fu Freud a sviluppare i primi modelli della mente, in seguito sviluppati e rielaborati da un considerevole numero di analisti esperti che hanno lavorato dopo di lui.
Il trattamento psicoanalitico può rivelare come questi fattori inconsci influiscano sulle relazioni attuali e sui modelli di comportamento, ricondurli alle loro origini storiche, rivelare in che modo questi abbiano nel tempo influenzato la propria vita, e aiutare l’individuo ad affrontare meglio la realtà del proprio essere adulto.

In che cosa consiste il famoso concetto di “transfert”?
Nel corso del trattamento psicoanalitico, la natura del rapporto che si sviluppa tra terapeuta e paziente ha inevitabilmente alcune caratteristiche significative, derivanti dal “mondo interno” di quest’ultimo. Il fatto che queste particolarità si manifestino all’interno della seduta – diventando quindi esplorabili all’interno della relazione tra terapeuta e paziente – rende possibile comprendere molti di questi aspetti in maniera più profonda, e lavorare per ottenere dei cambiamenti significativi.
La terapia psicoanalitica è una collaborazione tra paziente e terapeuta, nel corso della quale la persona può venire a conoscenza delle origini delle proprie difficoltà non solo dal punto di vista intellettuale, ma a livello emotivo, grazie alla possibilità di ri-vivere insieme al proprio terapeuta determinate esperienze emotive.
Mentre la persona parla, a poco a poco iniziano a comparire accenni delle fonti inconsce delle attuali difficoltà: attraverso alcuni schemi ripetitivi di comportamento, negli argomenti che il paziente trova difficili da affrontare, o ancora nei modi in cui si mette in relazione con l’altro.
Il terapeuta aiuta a chiarire queste modalità, che poi la persona affina, corregge, rifiuta, e arricchisce aggiungendo ulteriori riflessioni e sentimenti.

In che cosa il metodo psicoanalitico si differenzia dagli altri approcci?
Ecco alcune caratteristiche che aiutano a differenziare il trattamento psicoanalitico da altre forme di psicoterapia:

  •  La psicoanalisi è un trattamento a medio/lungo termine e i suoi risultati sono spesso duraturi, con effetti positivi che di solito continuano a realizzarsi negli anni seguenti il completamento del trattamento.
  • Ciò che permette alla psicoanalisi di essere efficace è la possibilità di comprensione di se stessi nel contesto di una relazione terapeutica
  • I pazienti sono incoraggiati a partecipare anche a più di una seduta settimanale. Questo permette la continuità e l’intensità del lavoro, e non è una misura della gravità del problema.
  • I pazienti spesso si sdraiano sul divano: questo favorisce il fluire del pensiero, l’esperienza emotiva e la riflessione su di sé, e permette ugualmente la possibilità di mantenere la propria intimità ed entrare in contatto con il terapeuta

Gli psicoanalisti sono preparati in maniera specifica a lavorare con questa modalità. Un patrimonio di esperienza e di ricerca ha confermato che questo è il modo migliore per aiutare i pazienti, che diventano in grado di evolversi e cambiare in modo significativo.

La psicoanalisi, per sua stessa natura, si addentra nel mondo della mente inconscia. Essa opera sulla base del fatto che le nostre prime esperienze – di qualsiasi natura – influenzano fortemente lo sviluppo della nostra mente e le modalità con le quali interagiamo con le altre persone intorno a noi.
Molti psicoanalisti importanti hanno contribuito alla comprensione dello sviluppo mentale e del funzionamento dei processi mentali – in particolare i cosiddetti meccanismi di difesa – e come questi ci aiutano ad affrontare il mondo che ci circonda. Questo significa che dopo il lavoro di Freud (che risale ormai ad almeno un secolo fa!) sono stati fatti numerosi progressi, sia nella teoria, sia nella tecnica.
La psicoanalisi occupa un posto molto complicato del mondo moderno: essa ha molto da offrire per aiutare a comprendere il proprio “Io”, e le modalità di funzionamento della propria psiche, eppure, per sua stessa natura, conduce in un territorio spesso molto difficile e impegnativo. Per questo motivo negli ultimi anni viene spesso criticata.

Il Trauma nei bambini

Il TRAUMA INFANTILE può essere definito come la conseguenza mentale di un evento esterno e improvviso o di una serie di eventi altamente stressanti che provocano una sensazione di impotenza nel bambino e che determinano una rottura delle abituali capacità di coping da lui messe in atto.

L’EMDR vede la patologia come informazione immagazzinata in modo non funzionale, soprattutto quella legata alle esperienze nei primi anni di vita.

Le esperienze negative e traumatiche subite in età infantile sono in genere presenti in modo diffuso, vengono sottovalutate e diventano comunque una fonte primaria di disagio. Qualsiasi esperienza in cui il bambino sperimenta oppressione, paura o dolore, insieme ad una sensazione di impotenza, può essere considerato un trauma infantile. I bambini che, durante l’infanzia, hanno sperimentato traumi ripetuti (sia di natura relazionale che ambientale) e che non possono contare su una buona relazione di attaccamento con le proprie figure genitoriali, sono caratterizzati da traiettorie di sviluppo estremamente carenti e danneggiate. Questo è dovuto al fatto che i bambini sono molto impressionabili e il loro livello di esperienza non è tale da dare loro una visione equilibrata della vita e di loro stessi. Tendono a fidarsi molto degli adulti, soprattutto delle figure genitoriali che hanno una grande credibilità ai loro occhi. Quindi, se l’adulto fa o dice qualcosa di negativo o di grave il bambino attribuisce la colpa a se stesso, non ai problemi dell’adulto.

I bambini provano dolore nello stesso modo degli adulti quando vengono esposti a eventi gravi come la morte di un familiare o una malattia o una violenza nei loro confronti. Quindi, i bambini sono soggetti a provare stati di ansia ed emozioni come rabbia, colpa, tristezza, mancanza e senso di impotenza.

La capacità dei bambini di provare questo tipo di dolore è in genere sottovalutata, probabilmente questo è dovuto al fatto che si esprimono con modalità diverse da quelle degli adulti. Inoltre, nella nostra cultura abbiamo la tendenza a proteggere i bambini dal dolore e dalla sofferenza. Indipendentemente dal fatto di essere stati coinvolti direttamente nell’evento, i bambini si rendono conto e sentono quando succede qualcosa di grave.

Se si tace o si è vaghi riguardo all’evento, si lascia il bambino da solo con i suoi pensieri, con la sua immaginazione, con domande senza risposta e con tutta l’incertezza che questo crea. Se non viene data alcuna informazione lasciamo il bambino alle sue fantasie, che in genere sono peggio della realtà. Le fantasie negative possono provocare un senso di ansia e di terrore che lasciano segni permanenti che si manifestano in seguito come vulnerabilità fisica o psichica.

I bambini che hanno vissuto delle esperienze altamente stressanti e traumatiche fin da piccoli, hanno la tendenza a rimettere in atto i loro traumi attraverso il comportamento. Essi possono infatti presentare alcune risposte tipiche determinate da questi fratture nello sviluppo, come ad esempio l’acting out e l’evitamento.

Le risposte a cui i bambini che hanno vissuto eventi traumatici possono andare incontro sono molte; esse possono variare da una breve reazione da stress che si risolve in modo spontaneo, ad una sindrome più complessa definita come Disturbo Post-Traumatico Complesso.

Il supporto di uno psicoterapeuta è necessario, soprattutto se le persone con cui vive il bambino non sono in grado di aiutarlo. L’intervento terapeutico è in genere di breve o media durata ed è importante non solo per risolvere il problema emotivo post-traumatico ma anche come prevenzione di difficoltà future.

I bambini e le loro emozioni

Come aiutare i bambini ad elaborare il trauma

L’EMDR come approccio evidence-based

Nel lasso di trent’anni dalla sua scoperta, ad opera della ricercatrice americana Francine Shapiro, l’EMDR ha ricevuto più conferme scientifiche di qualunque altro metodo usato nel trattamento dei traumi.

Oggi è riconosciuto come metodo evidence based per il trattamento dei disturbi post traumatici, approvato, tra gli altri, dall’American Psychological Association (1998-2002), dall’American Psychiatric Association (2004), dall’International Society for Traumatic Stress Studies (2010) e dal nostro Ministero della salute nel 2003. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, nell’agosto del 2013, ha riconosciuto l’EMDR come trattamento efficace per la cura del trauma e dei disturbi ad esso correlati.

L’efficacia dell‘EMDR è stata dimostrata in tutti i tipi di trauma, sia per il Disturbo Post Traumatico da Stress che per i traumi di minore entità.  La ricerca recente mostra che, attraverso l’utilizzo dell’EMDR, le persone possono beneficiare degli effetti di una psicoterapia che una volta avrebbe impiegato anni per fare la differenza.

Alcune ricerche hanno infatti dimostrato che tra l’84% e il 90% dei pazienti che riportavano l’esperienza di un singolo evento traumatico non mostravano più i sintomi di un Disturbo da Stress Post-traumatico dopo sole 3 sessioni di EMDR da 90 minuti ciascuna. L’efficacia dell’EMDR nel trattamento del PTSD è ormai ampiamente riconosciuta e documentata, ma attualmente l’EMDR è un approccio terapeutico ampiamente usato anche per il trattamento di varie patologie e disturbi psicologici.

Data l’importanza che gli eventi traumatici (siano essi traumi singoli che cumulativi e relazionali) rivestono nello sviluppo di differenti patologie, diviene importante affrontarle attraverso un approccio che tenga in considerazione e riesca ad intervenire sull’origine traumatica di tali disturbi.

La ricerca riguardante l’EMDR è una delle prime in cui sono stati evidenziati i cambiamenti neurobiologici che si verificano durante ogni seduta di psicoterapia, rendendo l’EMDR il primo trattamento psicoterapeutico con un’efficacia neurobiologica provata. Le scoperte in questo campo confermano l’associazione tra i risultati clinici di questa terapia e alcuni cambiamenti a livello delle strutture e del funzionamento cerebrale.

Dato il riconoscimento a livello mondiale dell’efficacia di questo metodo terapeutico per il trattamento del trauma, ad oggi più di 120.000 clinici in tutto il mondo usano questa terapia. Milioni di persone sono state trattate con successo negli ultimi anni.

Quali sono le basi dell’EMDR?

L’approccio EMDR, adottato da un numero sempre crescente di psicoterapeuti in tutto il mondo, è basato sul modello di elaborazione adattiva dell’Informazione (AIP). Secondo l’AIP, l’evento traumatico vissuto dal soggetto viene immagazzinato in memoria insieme alle emozioni, percezioni, cognizioni e sensazioni fisiche disturbanti che hanno caratterizzato quel momento. Tutte queste informazioni immagazzinate in modo disfunzionale, restano “congelate” all’interno delle reti neurali e incapaci di mettersi in connessione con le altre reti con informazioni utili. Le informazioni ”congelate” e racchiuse nelle reti neurali, non potendo essere elaborate, continuano a provocare disagio nel soggetto, fino a portare all’insorgenza di patologie come il disturbo da stress post traumatico (PTSD) e altri disturbi psicologici.

Le cicatrici degli avvenimenti più dolorosi, infatti, non scompaiono facilmente dal cervello: molte persone continuano dopo decenni a soffrire di sintomi che ne condizionano il benessere e impediscono loro di riprendere una nuova vita.

L’obiettivo dell’EMDR è quello di ripristinare il naturale processo di elaborazione delle informazioni presenti in memoria per giungere ad una risoluzione adattiva attraverso la creazione di nuove connessioni più funzionali. Una volta avvenuto ciò, il paziente può vedere l’evento disturbante e se stesso da una nuova prospettiva.

L’EMDR considera tutti gli aspetti di un’ esperienza stressante o traumatica, sia quelli cognitivi ed emotivi che quelli comportamentali e neurofisiologici. Utilizzando un protocollo strutturato il terapeuta  guida il paziente nella descrizione dell’evento traumatico, aiutandolo a scegliere gli elementi disturbanti importanti.

Al termine della seduta di EMDR, quando il processo di rielaborazione ha raggiunto la risoluzione adattiva, l’esperienza è usata in modo costruttivo dalla persona ed è integrata in uno schema cognitivo ed emotivo positivo.

Attraverso il trattamento con l’EMDR è dunque possibile alleviare la sofferenza emotiva, permettere la riformulazione delle credenze negative e ridurre l’arousal fisiologico del paziente.
Questo approccio risulta efficace anche con i pazienti che hanno difficoltà nel verbalizzare l’evento traumatico che hanno vissuto. L’EMDR, infatti, utilizza tecniche che possono fornire al paziente un maggior controllo verso le esperienze di esposizione (poiché non si basa su interventi verbali), e che possono aiutarlo nella regolazione e nella gestione delle emozioni intense che potrebbero scaturire durante la fase di elaborazione.

Consultazione e psicoterapia con l’adulto

Quando un adulto consulta uno psicologo la scelta è dettata da uno stato di soffernza che può essere scatenata da diversi eventi o cause: un insuccesso lavorativo, la fine di una relazione, uno stato di isolamento, sfiducia e disistima di sé. La necessità puo essere quella di superare un ostacolo momentaneo oppure quella più a lungo meditata legata ad un’esigenza sempre crescente di approfondire aspetti di sé e del prorio passato che si ritiene abbiano un peso nel determinare quella soffernza. Spesso ci si aspetta di uscire il prima possibile da uno stato di sofferenza e nel modo più indolore possibile ma la soffernza psicologica richiede un minimo di pazienza, tempo e ripetizione per essere affrontata . Non ci sono soluzioni magiche  ma insieme al terpaueta occorre attingere alle proprie capacità riflessive per trovare nuovi significati che spieghino quello stato di sofferenza a partire dal porsi alcune domande su di se:

  • Cosa mi fa stare male ?
  • Cosa mi impedisce di stare bene con me stesso e con gli altri?
  • Quando è iniziato il mio stato di sofferenza ?

Talvolta basta una fase di cosultazione per chiarirsi le idee  altre volte la paura di affrontare la soffernza legata a certi eventi e ricordi porta ad arretrare sotterrando i problemi. Spesso invece si sente l’esigenza di affrontare in modo più approfondito quella sofferenza. Per questo non si possono stabilire tempi e durata del percorso perché dipende dai nodi del proprio malessere e da quanto tempo siamo disposti a concederci per la cura della notra sofferenza. La tecnica della spicoterapia psicodinamica integrata con l’uso dell’emdr e molto utile e proficua per affrontare diverse tematiche.

Consultazione e psicoterapia con l’adolescente

L’adolescente avverte in pieno la tensione trasformativa in atto nella sua personalità, e di conseguenza percepisce e soffre dentro di sé la compresenza conflittuale di due componenti antitetiche mescolate: tante nuove scoperte ed esigenze adulte, confusivamente frammiste ai residui delle istanze e dei bisogni infantili.

Comprendere appieno questa realtà particolare è premessa indispensabile non solo per lo studio psicodinamico dell’adolescenza, ma anche e soprattutto per la scelta di una strategia psicoterapeutica che permetta di entrare in contatto con l’adolescente in crisi, superandone le forti resistenze difensive.

Cerchiamo dunque per prima cosa di vedere il mondo con gli occhi dell’adolescente, per poi avvicinarci meglio alla descrizione della sua realtà psicodinamica; nella quale occorre poi distinguere, per quanto è possibile, gli aspetti che potremmo considerare fisiologici della crisi adolescenziale, intesa come necessario passaggio maturativo, da quelli più francamente patologici che possiamo rilevare nell’adolescente con problemi, per il quale si pone la necessità di un adeguato aiuto psicoterapeutico.

Dal punto di vista dell’adolescente gli adulti appaiono come i gestori di una struttura di potere e di controllo, gli appartenenti ad una classe privilegiata e tirannica che opprime il mondo intero.

L’adolescente non riesce a dare il giusto valore alla conoscenza ed alle capacità degli adulti; egli ha piuttosto la sensazione che essi siano tutti ipocriti e frodatori, in possesso di qualcosa che non hanno il diritto di possedere, come un’organizzazione aristocratica che tenta di conservare il proprio potere assoluto e prevaricatore.

Per converso i bambini vengono considerati dall’adolescente come prigionieri o servi dei loro stessi genitori, schiavi soprattutto ancora delI’illusione che i loro genitori-padroni conoscano tutto e possano fare tutto, mentre egli si sta sempre più rendendo conto di aver creduto troppo a lungo in falsi Dei, ora delusivamente scoperti impotenti e bugiardi.

La posizione dell’adolescente è quindi piena di disprezzo sia nei confronti degli adulti che dei bambini, cosa che rappresenta anche uno dei principali problemi tecnici per la clinica.

L’adolescente in crisi tende infatti a rifiutare l’aiuto psicoterapeutico per due opposti motivi: sia perché teme una manipolazione da parte di un adulto che, pretendendo di curarlo, potrebbe cercare di imporgli modelli di pensiero e di comportamento inaccettabili e non essere capace di accettare senza reagire le sue rigide critiche al mondo degli adulti; sia perché si rende consciamente o inconsciamente conto che il lavoro psicoterapeutico potrebbe comportare la rivisitazione dolorosa dei propri conflitti infantili, negati o proiettati, e comunque rimossi perché considerati cose da bambini.

L’adolescenza è una fase della vita in cui i dubbi su se stesso, gli interrogativi sulla propria identità, l’insoddisfazione verso il proprio corpo, le tensioni con  i genitori possono costituire dei momenti di transizione difficili.

In alcuni casi  questi aspetti assumono un peso eccessivo, provocando stati di sofferenza che si protraggono o che si estendono fino ad invadere la vita del ragazzo. E’ questo un periodo in cui si costruisce la propria personalità trovandosi ad un bivio tra la possibilità di sviluppare una struttura personale solida e il riuschio di amplificarsi di certe fragilità  e questa una fase in cui si prendono le distanze dai genitori secondo un processo di separazione e individuazione del proprio sé. L’adolescente ha bisogno che gli sia riconosciuta una sua indipendenza, deve prendere le distanze dai genitori per potersi differenziare da loro. L’ambivalenza dunque nel chiedere aiuto ad uno psicologo per superare le proprie crisi evolutive è particolarmente comprensibile in questa fase.

Le tematiche su cui più frequetemente si lavora riguardano:

  • crisi rispetto alla propria identità ( chi sono? cosa provo? non mi riconosco)
  • crisi rispetto al proprio progetto di vita ( cosa voglio? stati di isolamento , traumi come incidenti, traumi sessuali, maltrattamenti, lutti )
  • disagio nelle relazioni con i coetanei (timidezza, rabbia,  difficolta a farsi degli amici)
  • sofferenze in campo amoroso (essere stati lasciati,  nessuno mi vuole, paura del sesso)
  • disagio rispetto al proprio corpo che cambia  o che non corrisponde al corpo ideale
  • dubbi sulla propria identità sessuale (mi paicciono i ragazzi o le ragazze? ho paura di essere gay o di essere lesbica) 
  • tensioni con i genitori ( non mi capsicono, mi trattano come un bambino, non sanno quello di cui ho bisogno, non mi lasciano i miei spazi, non mi lasciano crescere)
  • problemi a scuola  (non mi piace quello che faccio, non mi concentro, sembro stupido)
  • angosce e paure  (terrore di stare da solo, mi blocco, ho il terrore dei giudizi)
  • ossessioni ( non riesco a non pensare a certe cose, accendo e spengo la luce continuamente )
  • pensieri e gesti autodistruttivi (pensieri suicidari, atti autolesionistici, tentati suicidi, anoressia, comportamenti spericolati, abuso di alcol e droghe)
  • somatizzazioni (stati di malessere fisico, mal di testa, mal di pancia, dermatiti)
  • rabbia

Tenterò ora di inquadrare gli aspetti che potremmo considerare fisiologici della crisi adolescenziale facendo riferimento al lavoro di Donald Meltzer. Come gli altri autori di formazione psicoanalitica, Meltzer descrive la situazione psicodinamica dell’adolescenza considerandola come un periodo di crisi dello spazio mentale e della sua integrazione, caratterizzato a suo avviso dalla presenza di un particolare tipo di splitting: da un lato l’invidia per il potere, l’egocentrismo, I’ambizione sfrenata; dall’altro la sensibilità per i deboli, I’idealizzazione dell’altruismo, I’emotività.

Nel tentativo di trovare ed esprimere un proprio nuovo modo di essere l’adolescente oscilla continuamente tra queste due posizioni, vivendo, inoltre, uno stato di grande confusione tra ciò che può portarlo avanti o indietro rispetto a quella che percepisce chiaramente come una scomoda e faticosa situazione intermedia tra infanzia ed età adulta: nel desiderio di staccarsi dalla dimensione infantile, considerata debole e dipendente, I’adolescente teme fortemente la sua stessa grande sensibilità, perchè ha paura che mostrarsi troppo sensibile lo possa far di nuovo scivolare indietro verso l’infanzia e la dipendenza dagli adulti; contemporaneamente, nel desiderio di progredire verso la dimensione adulta, considerata cinica ed assolutista, tende a pensare che l’unico modo di rendersi indipendente sia quello di andare avanti senza pietà sulla strada di un grandioso successo, ed allora scopre la paura di essere costretto a rinunciare completamente alla propria emotività.

In sostanza, secondo Meltzer, I’adolescente si trova a dover gestire una situazione paradossale, in cui tende a considerare ciò che può portarlo realmente avanti verso la maturità psicologica – ovvero la sensibilità e l’interessamento per gli altri, per l’arte e la letteratura, il sognare un mondo migliore ed il desiderio di contribuire alla sua realizzazione, la consapevolezza della propria relativa debolezza ed impotenza e quindi il desiderio di collaborare con gli altri per costruire insieme quello che non si può fare da soli – tende a considerare tutto questo, dicevo, come qualcosa che può farlo precipitare invece indietro.

Si manifesta allora così pienamente uno dei conflitti principali della crisi adolescenziale, che caratterizza una situazione di sofferenza mentale dell’adolescente stesso che potremmo considerare fisiologica. La difficoltà a tollerare ed a risolvere questo conflitto può tuttavia portare l’adolescente ad entrare in un percorso di crisi personale e di sofferenza più grave, tale da porre il problema tecnico della necessità di un aiuto psicoterapeutico.

La richiesta di aiuto in adolescenza non viene quasi mai dall’adolescente stesso, ma ben più spesso ci troviamo di fronte all’invio da parte dei genitori, della scuola, dei tribunali, ecc.; ma esiste anche un notevole numero di adolescenti con problemi per i quali non matura affatto, né come richiesta personale, né per un intervento istituzionale, una domanda di aiuto nel periodo adolescenziale, anche se teoricamente, dal mio punto di vista, un intervento psicoterapeutico potrebbe essere invece tecnicamente necessario, in particolare un intervento che comprenda tutta la famiglia.

Si possono distinguere quattro categorie di ragazzi:

I) I’adolescente che tende a rimanere nella famiglia;
2) l’adolescente che tenta di entrare il più velocemente possibile nel mondo adulto;
3) I’adolescente isolato, che per lo più non sente di essere in difficoltà, ma di cui tutti si preoccupano;
4) I’adolescente che ha problemi nel gruppo dei coetanei.

E’ evidente che la richiesta di intervento riguarda quasi esclusivamente il terzo ed il quarto tipo di ragazzo, per i motivi che dirò tra breve, mentre quasi mai vedremo chiedere aiuto, perlomeno in adolescenza, gli individui delle prime due categorie, che, anche se in modo opposto, trovano per lungo tempo il modo di negare la propria sofferenza mentale.

1) L’adolescente che tende a rimanere in famiglia viene infatti molto spesso favorito in questa sua scelta difensiva dalla famiglia stessa, il che comporta una fissazione al periodo di latenza; il perdurare di una visione del mondo ovattata ed irreale porta questi individui a condurre una vita protetta, riducendo al minimo le esperienze stressanti; essi vanno però frequentemente incontro in età successiva ad un grave crollo psicologico, perlopiù in occasione della nascita di un figlio o della morte dei genitori, crollo che rende spesso necessaria una richiesta di aiuto.

2) Al secondo tipo appartengono gli adolescenti che hanno deciso di andare avanti senza pietà, raggiungendo il più presto possibile il successo e l’indipendenza; questi individui utilizzano fortemente le difese maniacali per liberarsi dall’ansia e da ogni sofferenza, trovando un potente rinforzo narcisistico nel rendere gli altri invidiosi.

Veniamo ora alle due categorie per le quali si pone più di frequente il problema di un adeguato intervento psicoterapeutico più di frequente già in adolescenza.

3) Gli adolescenti isolati sono gli individui in cui si manifesta la situazione psicopatologica più grave, che ha quasi sempre origine da un crollo catastrofale di una troppa intensa idealizzazione dei genitori; l’adolescente si ritira in se stesso, irrigidendosi in un’organizzazione narcisistica autocritica, vivendosi come l’unico garante della propria assoluta autonomia; questi ragazzi possono tendere ad isolarsi restando in famiglia, vivendo una megalomania che potremmo definire <<tranquilla>>, sentendo che hanno una missione da compiere per se stessi e quindi non possono venire a patti con il mondo; oppure possono tendere a vivere ai margini di ogni spazio istituzionale regolamentato, convinti di bastare a se stessi, sviluppando spesso comportamenti devianti o francamente psicopatici; nel primo caso è spesso la famiglia a richiedere l’aiuto psicoterapeutico, mentre nel secondo è più spesso uno dei livelli istituzionali sociali (scuola, tribunale, ecc.).

4) Al quarto tipo appartengono i ragazzi che, pur essendo usciti dal periodo di latenza ed essendo entrati a far parte di gruppi di coetanei, vivono con difficoltà gli intensi processi di identificazione su cui si basa la coesione e l’organizzazione di questi gruppi, fino a manifestare la presenza di problemi nella maturazione psicosessuale della loro personalità; vediamo di capire a che livello si creano questi problemi.

Come sappiamo l’adolescente tende normalmente ad entrare dapprima in un gruppo di pari, cioè “amici” dello stesso sesso, fortemente regolato, dove vive essenzialmente dinamiche di confronto e di potere; poi il prelevare delle spinte puberali porta a successivi distacchi, man mano che si formano le prime coppie con ragazzi o ragazze dell’altro sesso, fino alla dissoluzione dei gruppi omosessuali ed alla costituzione di nuovi gruppi eterosessuali, perlopiù formati da coppie; successivamente anche questi gruppi tendono a dissolversi, man mano che ogni ragazzo o ragazza sceglie la sua strada nella vita e quindi nuove dimensioni di appartenenza più adulte.

Da un punto di vista bioniano potremmo dire che il primo tipo di gruppo presenta un assetto dinamico in cui prevale la posizione schizoparanoide e l’assunto di base di attacco-fuga, mentre nel secondo tipo di gruppo cominciano a prevalere la posizione depressiva e l’assunto di base di accoppiamento; da ciò derivano i diversi quadri psicopatologici che possono giungere alla nostra osservazione.

La maggior parte degli adolescenti per cui si pone il problema di un aiuto psicoterapeutico proviene dal gruppo omosessuale, di cui soffre fortemente le dinamiche competitive e le rigide regole di inclusione-esclusione; in secondo luogo ci troviamo di fronte a ragazzi che non riescono a compiere i passaggi evolutivi da un gruppo all’altro e poi verso la vita adulta; in tutti ritroviamo in primo piano problematiche riguardanti l’immagine di sé e conflitti che derivano dalla difficoltà di gestire la confusione e la conoscenza, nonché naturalmente la difficoltà nel tollerare la sofferenza mentale. Anche nel caso di questa categoria di adolescenti con problemi prevale la richiesta di aiuto da parte delle famiglie o di altri livelli istituzionali; tuttavia oggi non è più così raro che in questo caso la domanda di aiuto provenga anche direttamente dai ragazzi in crisi.

Da quanto abbiamo visto risulta che il problema di dare una adeguata risposta alla richiesta di aiuto psicoterapeutico in adolescenza dipende fortemente dal tipo di ragazzo e di famiglia. Sottolineo la famiglia, perché l’orientamento moderno tende ad affrontare parallelamente, quando non congiuntamente, i problemi del ragazzo e quelli della sua famiglia. 

La psicoterapia dell’adolescente richiede un atteggiamento sufficientemente attivo del terapeuta. Si tende quindi ad escludere l’analisi classica, che può essere casomai consigliata successivamente, in età adulta; si privilegia invece lo strumento della psicoterapia psicoanalitica, sia individuale che di gruppo. In ogni caso il lavoro viene centrato sul tentativo di rimettere in moto il funzionamento mentale e la circolazione degli affetti, cercando di superare la negazione e soprattutto alleviando la necessità di ricorrere alla scissione come meccanismo di difesa.

E’ sempre necessario intervenire sulla famiglia, la cui domanda di cura per l’adolescente va a mio avviso adeguatamente interpretata ed allargata. L’intervento sui genitori si rende poi assolutamente necessario nei casi in cui l’adolescente presenti problemi di anoressia-bulimia o un atteggiamento deviante di tipo psicotico o psicopatico, ed inoltre nei casi in cui sia presente un comportamento violento dei genitori stessi.

Nella terapia analitica dell’adolescente comunque non è tanto importante analizzare il transfert (e qui rimando alla vasta bibliografia in merito alla tecnica), quanto accogliere ed accompagnare il ragazzo o la ragazza nel difficile percorso trasformativo della sua mente e del suo corpo, facilitando la mobilità del pensiero e fluidificando la tendenza alla rigidità rappresentazionale.

Un ultimo punto sul quale vorrei soffermarmi è relativo alla necessità di saper utilizzare appieno con l’adolescente la relazione empatica ed i livelli preconsci del pensiero, evitando ogni tendenza a fornire più o meno dotte interpretazioni o spiegazioni, anche quando sembrano provocatoriamente richieste. L’adolescente ha bisogno di essere aiutato soprattutto ad accettare la presenza del dubbio e dell’ambivalenza nel pensiero, ma difficilmente si può ottenere questo se non immergendosi completamente insieme a lui nelle aree più confuse della sua mente, tollerando insieme a lui la sofferenza profonda che caratterizza la sua situazione psicodinamica transizionale ed affiancandolo nella sua ricerca di una personale via di uscita.

Consultazione Partecipata secondo il metodo di Dina Vallino

A volte i genitori hanno delle teorie sul disturbo del figlio che non corrispondono realmente alla situazione che sta vivendo. Si creano dei fraintendimenti che spesso traggono origine dalle storie familiari dei genitori che vengono proiettate nel figlio, il quale si ritrova a diventare ricettacolo di vissuti non suoi.

Nella consultazione partecipata i genitori rivestono un ruolo chiave in quanto partecipano attivamente all’osservazione del bambino guidata dal terapeuta per poi riparlarne in una seduta separata. Hanno così l’occasione di vedere il bambino per quello che è.

Viene richiesto ai genitori e al bambino di giocare, disegnare insieme  e osservare quello che accade mentre gioca e disegna commentando ciò che fa. E’ necessaria una particolare iniziativa del terapeuta rivolta verso il bambino che renda possibile il loro giocare e osservare.

Si tratta per il terapeuta di far sentire al bambino che lui, che è giudicato in società “rotto” e che si sente “rotto” , è invece considerato dal terapeuta un bambino interessante  cui è rivolta tutta la sua attenzione e comprensione.

Il bambino che si sente capito e ascoltato  e interessante per il terapeuta lascia cadere la rimozione o altre difese e inizierà a disegnare o a giocare in modo più libero: rivelerà qualcosa di sé. Si risveglierà in lui la sua pulsione affettiva e di coseguenza anche nei genitori.. Così si riattiverà tra loro il legame affettivo andato in crisi e motivo dei sintomi.

Il bambino deve poter fare emergere la propria esperienza emotiva e non può farlo se questa non viene compresa dai genitori.

Punto centrale della consultazione è realizzare un contatto col bambino che renda visibile la sua esperienza emotiva per non rischiare che rimanga solo e venga travolto da pensieri ed emozioni irruenti e travolgenti.

Occore per questo prestare attenzione all’atmosfera emotiva che si crea nella stanza, sguardi, gesti movimenti, toni di voce, piccoli dettagli, sfumature che danno il senso di un caos a cui bisogna dare un nome rispondendo in modo delicato e creativo.

Il racconto e la storia inventata rappresentano uno strumento cardine che favorisce lo sviluppo di un “luogo immaginario” nel quale il bambino per sua natura è gia immerso, dove possono essere messi in scena ed elaborati i suoi vissuti.