L’adolescente e il suo corpo

“Non è bella questa età!”

Con queste parole Sara, una ragazza di 15 anni grida al mondo il suo dolore per un passaggio difficile che non sa come affrontare. E’ appena entrata nel centro dove la attende la sua terapeuta. “Era più bello quando ero piccola perché c’era sempre qualcuno vicino, perché ora questo corpo non è più mio”.

Parole dette con la potenza del dolore, urlate in un posto in cui sente che possono essere accolte prima ancora di essere capite e interpretate. Per Sara, i cui primi anni di vita sono stati caratterizzati da un forte disagio, questa fase della vita e sicuramente più difficile di quanto lo sia per altri ragazzi. Nell’affrontare il tema dell’identità corporea  il passaggio dall’infanzia all’adolescenza avviene ormai senza riti di passaggio che ne sanciscano il significato. Il senso di onnipotenza che pervade la vita affettiva del bambino passa nel ragazzo che deve fare i conti con una delle trasformazioni più radicali dell’intera esistenza.

Questo colloca oggi l’adolescenza in una dimensione aspecifica che si estende in un arco di tempo dilatato .

Il ragazzo che chiede un intervento chirurgico per migliorare il proprio naso, la ragazza che vuole migliorare il proprio seno o che si mette a dieta ferrea, i ragazzi che attraverso la depilazione rincorrono un’immagine femminile, adornare il proprio corpo con  tatuaggi e  piercing insieme alla non accettazione di momenti fisiologici come quelli dell’acne sono comportamenti che possono essere interpretati come un rifiuto di abbandonare l’Eden dell’infanzia o anche come un tentativo di aderire agli standard proposti dagli adulti.

Molto è stato detto sulla ricerca della perfezione estetica e sull’eccesso di richieste di standard sempre più elevati di bellezza e successo. Il corpo  è per l’adolescente il luogo sul quale si giocano le principali trasgressioni rispetto al mondo degli adulti che costituiscono un canale di comunicazione con l’esterno. Aderire alla moda dei pari vuol dire indossare una prima identità che lo definisce libero dagli standard della famiglia. Le continue trasformazioni del corpo richiedono una buona dose di adattabilità perché il ragazzo trovi di volta in volta le forme che esprimono il suo peculiare modo di essere al mondo.

Il corpo, che può essere modificato ma non trasformato, può esprimere vigore ma anche essere sede di fastidi, malesseri e malattie accettando le graduali limitazioni al proprio prorompente narcisismo. Ma se il bambino di ieri non è stato abituato a fare i conti con alcun tipo di dolore  e se gli adulti sono capaci di cambiare i propri connotati fisici perché gli adolescenti non dovrebbero fare lo stesso?

Ci sono situazioni in cui il bambino sperimenta l’impossibilità di far fronte a un minimo disagio del corpo  che si caratterizza come un involucro inviolabile cui non bisogna far patire il minimo danno. Manca cioè quel contenimento che consente gradualmente di fare i conti con la tolleranza e con la capacità di attribuire senso. Ci troviamo di fronte ad un corpo che non viene più definito dal limite ma dalla sua possibilità di superarlo anche attraverso l’accettazione di un dolore (fisico) ricercato come esperienza  come ci raccontano certe forme di piercing o il cutting. Ci confrontiamo con un corpo che fatica ad essere mentalizzato perché non c’è tempo di aspettare che il dolore passi e non c’è modo di apprezzare l’originalità della differenza. Il corpo dei nostri adolescenti è diventata la sede di tutti i disagi che costellano la trasformazione e l’espressione di tutti i sentimenti che la pervadono. Come se la frustrazione, la rabbia e la delusione che non sono più contenute a livello mentale e non trovano posto nemmeno nell’adulto, trovassero una via d’uscita in azioni perpetuate sul proprio corpo. Un corpo sul quale vengono a iscriversi ribellioni, proteste sorde, rivalse.

Il cutting è un tentativo di vivere sul proprio corpo un dolore altrimenti indicibile. E’ la possibilità di infliggere un danno  al corpo immacolato dell’infanzia. “Quelle ferite mi ricordano momenti terribili che altrimenti non avrebbero avuto luogo”. Questo mi disse una ragazza che non si era mai permessa di sentire un dolore che aveva vissuto attraverso il corpo. Restava sul corpo una traccia che le dava un senso di continuità, tagli che sembrano aprire una comunicazione tra il mondo esterno e il mondo interno. “Quel sangue mi fa sentire una calma interiore e non mi sento più vuota.

Un sentimento diffuso nei giovani è quello della  vergogna determinato dal non sentirsi all’altezza del mandato genitoriale ovvero “sii te stesso a modo mio”. Parliamo di standard prestazionali d’eccellenza da parte di genitori che non mortificano il talento ma lo esaltano in figli con esistenze sempre più iperattive che si angosciano quando cominciano ad arrancare.

Avere un corpo forte e meglio definito con diete ed esercizio fisico significa plasmare nel corpo la propria identità con un tendere ossessivamente alla perfezione. L’Impossibilità a sostare nel dolore sposta l’attenzione sul corpo, unico oggetto investito. Una virilità e una femminilità dunque fatte di solo corpo. Nel corpo viene messo in atto un conflitto tra controllo e abbandono pulsionale.

I genitori non si possono deludere; non c’è spazio per la rabbia, per la tristezza o per il dolore dell’esistere. Ci troviamo di fronte a un modello materno potente e dominante e ad un modello paterno fragile  e non riconosciuto.

E’ questo il tempo del vuoto identitario. “Ti dico io cosa provi e chi sei” in un ottica di evitamento del dolore e di non separatezza favorite dai genitori che iper-investono nella prestazione del figlio: il fare si sostituisce all’essere e al sentire.

Il corpo è un oggetto esibito e competitivo. Se l’ideale è irraggiungibile il corpo viene attaccato e la vergogna per la propria inadeguatezza spinge il giovane a ritrarsi da qualsiasi vero incontro con l’altro che finisce per essere solo una stampella narcisistica del  proprio sé.

I corpi diafani che si aggirano come fantasmi, i corpi feriti che portano in giro la memoria di un dolore, i corpi inadeguati o superpotenti sono alla ricerca di un significato da dare al proprio cambiamento. E’ necessario non esserne spaventati sdrammatizzando la tragicità senza perdere il contatto con l’intensità della comunicazione per restituire ai ragazzi quel bisogno di sentirsi unici e padroni del mondo come è stato concesso alle nostre adolescenze.

“Non è bella questa età!”

Dott.ssa Milena Lazzari

psicologa-psicoterapeuta

L’USO DELLA TECNOLOGIA IN ADOLESCENZA

ragazzi di oggi, i cosiddetti «nativi digitali», sono nati e cresciuti in un contesto tecnologico e oggi chi non usa la tecnologia è considerato un outsider della società.

I giovani vivono la tecnologia, e lo smartphone in particolare, come qualcosa di cui non riescono a fare a meno. Diverse ricerche condotte in Italia dai soci del Minotauro sull’utilizzo di Internet da parte degli adolescenti rilevano che chi usa la Rete ha di solito anche una vita di buon livello e amicizie reali, a meno che non emerga un reale disturbo patologico. Sono invece i “non utilizzatori” quelli che stanno peggio e hanno maggiori problemi di socializzazione.

Altro dato di fatto è che il cellulare o gli altri device li regalano mamma o papà. È una scelta educativa importante e una volta fatta non si può rinnegare. All’inizio il cellulare è spesso usato dalle mamme come cordone ombelicate virtuale e consente ai ragazzi di ottenere un’autonomia fittizia: “chiamami quando arrivi, scrivimi come è andata la verifica ecc…” Poi quando questo fitto meccanismo di comunicazione che consente di stare sempre in contatto viene spostato dalla famiglia al contesto di amici, e alla mamma non si risponde più con tanta assiduità, allora viene criticato. Eppure è normale che un adolescente sano cerchi affetto e vicinanza dai propri coetanei.

Bisogna inoltre considerare che, essendo quasi totalmente scomparsi i luoghi di aggregazione spontanea (es. giardini, piazze, oratori,ecc..), questa generazione ha trovato nella Rete un nuovo modo per stare insieme autonomamente senza la presenza degli adulti.

Non di rado si sente dire: “ci vediamo alla partitella”, che però non è quella al campo di calcio, ma è il videogioco in Rete. Nelle chat di classe c’è sempre qualcuno che fa le battute, qualcun altro che posta video, altri ancora che si fanno carico dell’angoscia e solitudine dei compagni. Quello che succedeva in piazza, ora succede online. Ma le paure e le fragilità sono le stesse delle generazioni passate, è cambiato solo il mezzo con cui comunicarle e per questo appaiono amplificate. A volte in rete avviene un vero e proprio allenamento alle competenze necessarie alle relazioni: i ragazzi si esercitano online postando magari l’ultimo taglio di capelli, o un vestito nuovo per studiare la reazione virtuale prima di mostrarsi nella vita reale. Non a caso è quasi sempre visibile l’evoluzione dell’utilizzo dei social: i profili dei preadolescenti sono molto attivi, sono quelli che più rincorrono i “like”. I più grandi invece quando la personalità è più strutturata, sentono sempre meno il bisogno della rassicurazione online. Infine lo schermo protegge e può aiutare i più timidi.

Il primo passo che noi adulti dovremmo quindi fare, quando ci approciamo agli adolescenti e all’utilizzo che fanno delle tecnologie, non è quello di soffermarci su “quanto usano” internet e i vari device ma sul “come” lo fanno. Dobbiamo arrivare a capire se vita reale e vita virtuale del ragazzo si intrecciano o meno. In sostanza, bisogna comprendere se l’utilizzo che l’adolescente sta facendo dello schermo sostiene i suoi “compiti evolutivi”, ossia se in qualche modo lo aiuta a costruirsi un’identità o, se invece, costituisce un rifugio dalla realtà.

Come sostiene Lancini “bisogna vedere se il ragazzo continua ad andare a scuola, se la sua cerchia di amici online è parallela a quella reale. Se rimane chiuso in casa senza frequentare nessuno probabilmente c’è un disagio. La radice del problema però non è quasi mai Internet in sé poiché i ritirati sociali più gravi non navigano nemmeno in Rete”.

Un altro aspetto importante è che trincerarsi dietro ai “non so”, “non conosco”, “non capisco” ha creato nei ragazzi l’idea che quando si tratta di tecnologia gli adulti non sono un punto di riferimento. Tutto questo è pericoloso perché crea una sorta di autonomia illusoria.

Rifiutare a priori ciò che non conosciamo o che non è della nostra generazione banalizzandolo a una perdita di tempo, uccide la comunicazione con gli adolescenti perché sentono che il loro mondo è attaccato, svalutato e la rottura talvolta è irrecuperabile. La parola d’ordine per mamma e papà è “incuriosirsi”, cercare di capire che cosa fanno i propri figli online, entrare nell’ordine di idee che youtuber (giovani iscritti al canale Youtube su cui caricano video personali) e videogiochi (per quelli più diffusi sul mercato come Minecraft o League of Legends servono tra l’altro ottime competenze) sono nuove modalità di comunicazione. Ignorarlo significa dare loro indipendenza e autonomia nel gestire una grossa fetta della loro vita senza l’aiuto di un adulto.

I genitori dovrebbero imparare a domandare ai figli “come va oggi la vita virtuale?” con la stessa naturalità con cui chiedono “come va a scuola?”, dando al mondo dietro agli schermi il medesimo peso che danno alla realtà. Attraverso il dialogo i genitori possono arrivare a capire se c’è un problema, anche se non si possono obbligare i figli a confidarsi. Il compito dei genitori è quello di rassicurare i figli sul fatto che sono presenti e possono accompagnarli ad un uso responsabile della tecnologia, ancora meglio se con l’aiuto e l’alleanza della scuola.

ATTI AUTOLESIVI

Si tratta di sintomatologie che esordiscono, spesso, nella prima adolescenza , che in molti casi si esauriscono durante l’adolescenza perché espressione di un disagio che portato sulla pelle, alla “superficie”, viene in qualche modo, con un sostegno da parte dell’ambiente, superato. In altri casi la scomparsa della condotta specifica non viene a corrispondere ad un esaurimento delle condizioni che l’hanno sostenuta, ma piuttosto ad un loro incistamento o involuzione, che verrà ad esprimersi con varie forme compreso, in alcuni casi, il passaggio ad atti di tipo suicidario.

E’ indubitabile quindi che tale condotta rappresenti perlomeno una condizione di rischio psicopatologico da non sottovalutare. In effetti l’attuale andamento “epidemico” di comportamenti autolesionistici negli adolescenti, in particolare nelle adolescenti, sembra inserirsi nelle forme cliniche culture-bound che hanno nelle anoressie e bulimie le condizioni cliniche attualmente più rilevanti. Si è parlato, a proposito dell’incremento di tali condotte, di anoressia new age; verrebbe da dire anche, almeno apparentemente: low cost. Una guerra a bassa intensità, comunque logorante, che l’adolescente avvia con il proprio Sé e il proprio corpo nel momento in cui fisiologicamente si trova a confrontarsi con l’esigenza di iniziare a definire un’identità corporea e mentale. Condotte che l’adolescente sembra mettere in atto per contrastare il contatto con intollerabili affetti negativi, che si verifica quando emerge una rappresentazione del Sé fortemente “inadeguato”, a fronte di una rappresentazione dell’altro, dell’oggetto, scarsamente accogliente e tollerante, nonché fortemente svalutante. Il self-cutting, quindi, si propone di primo acchito come affezione della pelle, o meglio, ricordando Anzieu (1987), dell’io-pelle, evocativamente, autoimmunitaria. Una sorta di “dermatite autoimmune” che segnala il non riconoscimento, la non accettazione, di parti del sé e del corpo.

Le neuroscienze hanno confermato d’altronde quanto corpo e mente siano due aspetti della stessa sostanza[1]. Identità tra corpo e mente che trova nel cervello il suo cardine, il suo luogo di articolazione. E’ ormai patrimonio comune il dato che i cambiamenti che sperimenta il soggetto in età evolutiva nell’attraversare l’adolescenza non sono sostenuti solo dai fenomeni ormonali, ma anche da consistenti e paralleli fenomeni di trasformazione del cervello . Potremmo dire che le trasformazioni fisiche dell’adolescente riguardano il suo intero corpo a partire dal cervello. Tali trasformazioni appaiono sostenute dallo scopo di “attrezzare” progressivamente il teenager a divenire sempre più autonomo e a consolidare man mano un senso di identità personale. Sotto questo punto di vista l’esigenza di mettersi alla prova e la ricerca di novità rappresentano delle esperienze necessarie a favorire un maggiore senso di sicurezza e di padroneggiamento della realtà e del proprio corpo.

Questi aspetti possono rivestire un ruolo anche nel favorire l’accesso, di alcuni adolescenti in difficoltà, a condotte come il self cutting , sulla base di una esigenza di ricerca di novità, che in questo caso viene messa soprattutto al servizio della necessità di mettere a punto dispositivi che, contenendo l’angoscia, restituiscano un senso di controllo sulla propria minacciata realtà personale. Dobbiamo peraltro considerare, a proposito della propensione alla “novelty seeking” tipica della fase di sviluppo, che la diffusione delle pratiche autolesionistiche in adolescenza è la conseguenza della “appropriazione” di comportamenti che originariamente erano messi principalmente in atto da persone con particolari caratteristiche o in particolari condizioni (soggetti con gravi disturbi di personalità o psicosi o esposti a condizioni particolari come la detenzione in carcere ecc..) aspetto che d’altro canto è ravvisabile nei “trattamenti” sul corpo, come piercing e tatuaggi, generalmente non connotabili, come ci ricorda Lemma (2011), in senso psicopatologico.

Quando incontro Claudia, 14 anni, ella da alcuni mesi si ferisce sulle braccia con la lametta che, come spesso accade, ha svitato dal suo temperamatite. Afferma di non sapersi spiegare perché lo faccia, e ritiene di essere cambiata negli ultimi tempi, non perché si ritenga meno suscettibile di prima a critiche e rimproveri ma perché ora, quando sperimenta situazioni del genere, non le vengono “ le lacrime agli occhi” .

Sembra che la ragazza si ritenga più capace di contenere certi suoi stati emotivi dolorosi o per usare un termine mutuato dalla psicologia dello sviluppo, più competente nella autoregolazione delle sue emozioni; ma evidentemente è solo parzialmente consapevole che si tratta di un’autoregolazione patologica, che trova nel self-cutting uno strumento elettivo di pronto intervento, che la calma temporaneamente. Parzialmente consapevole, perché è stata comunque lei stessa a sollecitare e richiedere un aiuto anche attraverso il sintomo ,“marcatore somatico”  (utilizzo qui tale concetto in termini figurativi) di una persistente condizione di sofferenza. Damasio ha elaborato il concetto di marcatore somatico riferendosi a una configurazione emozionale intesa come variazione dello stato corporeo; una risposta, che diviene tipica, dell’organismo a un evento. In qualche modo è la variazione dello stato corporeo, in primis, a comunicare al soggetto ed eventualmente all’ambiente un cambiamento di cui tener conto. La tipicità della risposta corporea all’evento istituirà un meccanismo che si metterà in atto successivamente in modo automatico quando le contingenze lo richiederanno, quando si proporranno situazioni riconosciute dall’organismo come assimilabili a quella iniziale.

E’ possibile interpretare forse l’istituirsi delle condotte autolesive nell’adolescente non solo come ricerca di un sollievo alla sofferenza mentale e eventualmente una sollecitazione in tal senso al mondo esterno ma anche come una comunicazione dell’adolescente a sé stesso, attraverso il corpo, del proprio disagio. Una condizione percepibile, a volte, in maniera più netta, in prime adolescenti che giungono alla consultazione particolarmente disorientate, che non trovano facilmente pensieri e parole da associare a una condotta da cui, per certi versi, si sentono agite. L’instaurarsi del comportamento autolesivo spesso si accompagna alla ricerca di un senso dell’atto e forse di un senso di sé, ricerca che più che mai in adolescenza ha bisogno di “appoggiarsi” a quello che offre l’ambiente. “ … autolesionismo…l’autolesionismo è quando si fa male a sé stessi, quando si è depressi” affermava Claudia facendo riferimento alla biografia della nota cantante ”autolesionista”….”e puoi arrivare al suicidio, ma io a questo non ho lo mai pensato,… più che altro per i miei “ . Affermazione ambigua, quest’ultima, che segnala probabilmente in sé una negazione, in termini freudiani, e nello stesso tempo la persistenza di un legame, seppur con implicazioni regressive, nel mare magnum degli scompaginamenti adolescenziali. L’ancoraggio ai legami familiari, si potrebbe dire, per statuto dell’adolescenza, deve allentarsi. In assenza però di una relativa sicurezza di poter, almeno per un certo tempo, navigare a vista in attesa di poter individuare rotte più definite, anche approdi che sembrano non costituire una sosta e un rifornimento di un percorso soggettivante, possono essere praticati. “Sono autolesionista”, un’affermazione che mi è capitato diverse volte di ascoltare all’inizio del primo colloquio con ragazze adolescenti che presentano tale tipo di problematica. Nel primo incontro generalmente, soprattutto se non vi è alla base una richiesta esplicita dell’adolescente, non si va subito “al dunque”, ma si avvia una cauta esplorazione dell’altro alla ricerca di elementi che possano suggerire la possibilità di un’apertura. Nel contempo l’esitazione che spesso percepiamo testimonia di questa peraltro fisiologica incertezza identitaria, questa difficoltà a narrare qualcosa che ancora non è. Attraverso un’affermazione così perentoria si definisce invece, senza apparente incertezza, un’identità, denunciando contemporaneamente una mancanza, una chiusura, almeno temporanea, alla speranza di trovare in sé aspetti meno mortificati e più vitali. Non sempre però queste condotte in adolescenza sembrano rivestire questo tipo di vantaggio secondario.

Soprattutto in adolescenti più grandi qualche volta l’idea che la loro sofferenza possa rientrare in schemi, tendenze, può risultare un elemento di mortificazione che si aggiunge a quelli che sostengono tali comportamenti. Al senso di vergogna per come ci sente e si ritiene di essere visti dagli altri si aggiunge in certi casi la vergogna dello stesso gesto, le cui tracce si cerca di nascondere. Non è certo un caso che si tratti anche di un tipo di adolescenti che risultano meno disponibili ad accedere ad una relazione terapeutica e, nel caso in cui questo accada, a “darci un taglio” quando il livello di sofferenza è divenuto meno pervasivo o, nel caso in cui si determino anche lievi increspature nella sintonia tra paziente e terapeuta. Frizioni difficilmente riparabili all’interno della diade, per l’esposizione dell’adolescente a intollerabili vissuti di vergogna e di rabbia. E’ un elemento, quello della “ clandestinità”, che in maschi adolescenti che fanno ricorso a tale pratica, sembra più pronunciato. In questo caso tale condotta probabilmente viene ad essere maggiormente connotata  come una debolezza, un vissuto che, a volte, sembra compensato concretamente da una maggiore profondità dei tagli. Mi domando quanto gli aspetti ora considerati possano avere un ruolo nella frequenza significativamente maggiore con cui le ragazze, rispetto ai ragazzi, ricorrono al self-cutting .

Darci un taglio quindi con l’indeterminatezza, con la confusione, con il malessere. Come afferma Le Breton : ”Si tratta di fabbricare un dolore che argini la sofferenza” o, come in maniera altrettanto pregnante mi ha riferito un’altra giovane paziente, di “soffocare un grido”. Il taglio, come figurazione della ferita interiore e nello stesso tempo modo di cura della ferita stessa. Come incidere un ascesso e lasciar defluire i liquidi, le emozioni tossiche, negative. Si sa che, in assenza di una cura profonda, si verificheranno facilmente delle recidive. In alcuni casi la procedura potrà comunque favorire attraverso questo apparentemente paradossale meccanismo di algesia-analgesia, una delimitazione del dilagare di emozioni dolorose. “ non mi vengono più le lacrime agli occhi”, le lacrime, il pianto, segnali dal mondo dell’infanzia, di un legame regressivo con gli oggetti genitoriali. Segnali la cui percezione va interrotta, recisa, semmai sequestrata, isolata. Un incistamento che consegue allo stabilirsi di una ripetizione; un dolore che lenisce una sofferenza e che può sancire una dipendenza. Per sopravvivere al trauma il soggetto deve rinunciare a parti vitali del suo Sé, così come l’amputazione chirurgica di un arto viene a rappresentare l’unica possibilità di arrestare la diffusione di un processo gangrenoso. Il bisturi che viene utilizzato nel caso del trauma psichico è quello della dissociazione, non si dissociano solo esperienze traumatiche ma viene danneggiato, per la sopravvivenza del Sé, lo sviluppo dell’apparato percettivo-affettivo. Il sistema difensivo approntato permette il distanziamento da emozioni dolorose, ma limita le possibilità di crescita emotiva e cognitiva del soggetto sostenuto da un adeguato sviluppo della capacità di autoregolazione affettiva.

Buone capacità di autoregolazione affettiva, la Winnicottiana capacità di essere soli, non possono che svilupparsi come conseguenza di buone esperienze di eteroregolazione affettiva che il bambino sperimenta nella relazione con le figure di accudimento primarie. Per certi bambini alle soglie della pubertà, più facilmente per quelli che durante l’infanzia hanno sperimentato relazioni emotivamente scadenti con le figure di accudimento, l’ingresso in adolescenza può presentarsi esso stesso come traumatico. La restituzione sintomatica segnala il tentativo di riparare il trauma nei modi possibili, determinando il rischio di variabili gradi di automutilazione del Sé adolescente all’interno dei quali può rientrare, come difesa autarchica e pauperizzante, il self cutting.

 L’adolescente deve imparare a tollerare le angosce emergenti, a modulare e regolare i suoi stati affettivi al servizio della crescita del Sé e del suo progetto esistenziale per completare il processo di soggettivazione. In caso contrario si verificherà un arresto dello sviluppo sostenuto da una tendenza subdola o drammatica all’autodistruttività.

DISTURBI ALIMENTARI

I disturbi alimentari consistono in disfunzioni del comportamento alimentare e/o in comportamenti finalizzati al controllo del peso corporeo, che danneggiano in modo significativo la salute fisica o il funzionamento psicologico.

Negli ultimi anni i disturbi del comportamento alimentare sono nettamente aumentati in particolare nel mondo occidentale, dove l’ideale di magrezza e di linea perfetta è sempre più diffuso .  Colpiscono ogni strato sociale, con una forte prevalenza nel sesso femminile, circa il 90% delle persone affette da questi disturbi è di sesso femminile.
Insorgono generalmente nell’adolescenza ma sono in aumento anche i casi di bambini ed adulti diagnosticati con questa tipologia di disturbo.
I disturbi dell’alimentazione più diffusi sono:

  • Anoressia nervosa 
  • Bulimia nervosa
  • Disturbo da alimentazione incontrollata (o binge eating disorder, BED)

L’anoressia e la bulimia, in particolare, sono due disturbi dell’alimentazione che sono diventati molto frequenti negli ultimi vent’anni. Essi affliggono adolescenti ed adulti con conseguenze devastanti sulla salute. In alcuni casi, si è parlato addirittura di epidemia o di emergenza di salute mentale. Le persone affette da un disturbo alimentare hanno ripercussioni sulle proprie capacità relazionali, hanno difficoltà emotive, problemi nello svolgimento delle normali attività sociali, lavorative, e complicazioni mediche.

Uno dei segnali chiave è il pensiero ossessivo del cibo e la paura costante di ingrassare.
Un’altra sintomatologia comune è l’alterazione della propria immagine corporea. La percezione distorta che la persona ha del suo corpo influenza in modo non obiettivo i suoi atteggiamenti e pensieri. Questo tipo di disturbo ha un ruolo particolare all’interno della psichiatria, in quanto oltre ad interessare la mente e provocare sofferenza psicologica, coinvolge anche il corpo poiché può avere complicazioni fisiche molto gravi a carico del cuore, del sistema digestivo, delle ossa, dei denti e della bocca, fino a generare altre patologie.

I disturbi alimentari possono inoltre essere associati talvolta ad altri disturbi psichiatrici, come la depressione, i disturbi di personalità, il disturbo ossessivo-compulsivo, il disturbo d’ansia.

Raramente le persone che soffrono di un disturbo dell’alimentazione chiedono aiuto. Accade di frequente che chi si trovi attorno riesca a cogliere alcuni segnali che aiutino la persona ad identificare che si tratti di un problema da approfondire.

Il trattamento dei disturbi alimentari dipende dallo specifico disturbo e dai suoi sintomi. Tipicamente include una combinazione tra psicoterapia, educazione alimentare, monitoraggio medico ed alcune volte assunzione di medicinali.

Durante la terapia si tiene conto anche di eventuali problemi di salute generale causati da un disturbo alimentare, che possono essere gravi o addirittura pericolosi per la vita se ignorati a lungo.

Questo approccio terapeutico multidisciplinare aiuta la gestione dei sintomi, a ritornare ad un peso salutare e mantenere la propria salute sia fisica che mentale.

La terapia psicologica è la componente più importante del trattamento dei disturbi alimentari.

Nella società attuale i disturbi alimentari interessano un’ampia fascia di persone. Accanto alle forme più conosciute (anoressia, bulimia, binge eating) si stanno diffondendo nuovi disagi che si manifestano attraverso un’attenzione eccessiva all’alimentazione corretta (ortoressia) e una ricerca esasperata del fisico atletico e muscolarmente ipertrofico (vigoressia). La richiesta di aderire ad un ideale di perfezione e bellezza, così insistentemente proposto dalla società, può incontrarsi con aspetti di fragilità personale, un’immagine distorta o negata del proprio corpo, difficoltà nel delicato processo di separazione-individuazione o una particolare costellazione di fantasie inconsce, trovando espressione in un rapporto con il cibo difficile o patologico. Crescere comporta accettare una nuova immagine di sé, la separazione dagli antichi oggetti d’amore, il superamento della dipendenza e dell’illusione di onnipotenza propria dell’età infantile. Se il conflitto necessario per portare a termine in modo ottimale la propria maturazione non può essere vissuto, l’accettazione di confini e limiti, sia intrapsichici che interpersonali, può divenire molto difficoltosa. Il rapporto con il cibo è calato nel rapporto con l’altro, a tal punto che spesso lo rappresenta. Ha a che fare quindi con dinamiche di relazione familiare, sociale, culturale, oltre che con aspetti profondi e antichi legati alle esperienze di relazione primaria. E’ per questi motivi che il trattamento terapeutico dei disturbi del comportamento alimentare dovrebbe prendere in considerazione la persona nella sua interezza, considerando la manifestazione evidente del disturbo come un sintomo che non può essere risolto senza un lavoro sulla causa che lo ha reso manifesto.

L’approccio multidisciplinare integrato a orientamento psicoanalitico ha tra i suoi obiettivi un lavoro sulla personalità del paziente e sul dolore che il sintomo esprime, la valutazione di eventuali comorbilità psicopatologiche che possono determinare notevole variabilità del decorso clinico, l’evitamento delle ricadute e dello spostamento del sintomo da una sindrome ad un’altra.

Spesso, infatti, un trattamento che miri solo alla risoluzione diretta del sintomo può risultare poco adatto per questo tipo di disturbi poiché non tiene in considerazione la struttura di personalità sottostante.

Il rischio di un approccio terapeutico circoscritto al sintomo è infatti quello di continuare a non dare un senso a ciò che attende proprio di essere significato per divenire finalmente elaborabile all’interno di una relazione.

Ogni movimento verso l’autonomia della persona passa attraverso l’incontro con il reale, con le pulsioni, con le frustrazioni, con l’impotenza, la mancanza e il limite. L’esperienza di un oggetto troppo reale e presente può rendere difficile una buona separazione e integrazione del sé e lo sviluppo di una capacità di pensare e di simbolizzare l’altro e la realtà.

Fantasie, pensieri primitivi, terrori indicibili rimangono incistati nel corpo senza riuscire a trovare un’altra forma di comunicazione.

L’approccio psicoanalitico cerca di dare voce a quanto non detto e non pensato, di rendere pensabili contenuti caotici e scissi, di elaborare vissuti legati alla trasmissione trans-generazionale, di sviluppare una capacità di mentalizzazione e di simbolizzazione che possa superare e significare esperienze sensoriali e corporee e di accedere ad un pensiero astratto in grado di tollerare l’attesa e l’assenza. Questi cambiamenti sono possibili solo attraverso una relazione con l’altro che non sia centrata sul disturbo fisico, ma che sappia mantenere saldo il rapporto, troppo spesso scisso, tra mente e corpo, con uno sguardo rispettoso sulla complessità di un problema multideterminato, caratterizzato da numerosi fattori eziologici.

Proprio la complessità del disturbo richiede pertanto una presa in carico integrata da parte di una equipe di specialisti: colloqui preliminari, un lavoro di terapia individuale o di gruppo, terapie espressive, monitoraggio dei parametri medico-nutrizionali, un supporto per le famiglie, l’eventuale ricorso ad una consulenza psichiatrica, un percorso presso le istituzioni residenziali e semiresidenziali e un ricovero ospedaliero o ambulatoriale, se necessario.

Frequentemente, infatti, i disturbi del comportamento alimentare sono in comorbilità con altre patologie o sintomi che possono renderne più complesso il trattamento (depressione maggiore, disturbi d’ansia, fobie, disturbi ossessivo-compulsivi, disturbi dell’umore, altre forme di dipendenza, aspetti ipomaniacali…).

Per evitare la cristallizzazione di questo disturbo risulta determinante un lavoro di prevenzione e una diagnosi precoce.

I DISTURBI PSICOSOMATICI

La psicosomatica studia il legame presente tra la parte psicologica (la psiche) e quella fisiologica (il soma). Questo perché l’essere umano è composto in maniera unitaria da entrambe queste due parti, una influenza l’altra, quindi una problematica può manifestarsi come sintomo fisiologico e/o come malessere psicologico. Quando una persona si trova in una situazione di difficoltà, questa la maggior parte delle volte è causata da un insieme di fattori che si intrecciano tra loro.

I disturbi psicosomatici fanno parte di un campo che si interfaccia sia con la medicina che con la psicologia. Questo perché va ad indagare la relazione che si viene a creare tra corpo e mente, cioè tra quello che riguarda le emozioni e quello che riguarda la parte più fisica (il soma). Se vogliamo andare a specificare ulteriormente, la medicina psicosomatica cera di trovare ed interpretare come mai la mente può avere effetti negativi anche sul corpo.

I disturbi psicosomatici vengono a crearsi, come dicevamo, a partire da un’interazione di problematiche fisiologiche, psicologiche, psicosociali e ambientali. Problemi legati ad eventi di vita, allo stress che inevitabilmente viene a crearsi a casa o sul posto di lavoro, relazioni che non sono di qualità e anzi peggiorano il proprio stato d’animo, possono acuire uno stato di affaticamento già presente. Il ruolo che le emozioni giocano in tutto ciò è fondamentale, perché esse possono creare o aggravare dei danni già presenti a livello organico.

La difficoltà che si viene a creare con i disturbi psicosomatici è che spesso la persona fa fatica a capire se si trova di fronte ad un mero problema fisico o a qualcosa di più complesso ed inevitabilmente legato ad una situazione emotiva compromessa. Si trova quindi in un momento di stress e di malessere, al quale non riesce a dare un nome o una definizione precisa, che gli crea inevitabilmente ancora più ansia e stress.

Una persona “psicosomatica” può essere così chiamata se effettua uno spostamento o una conversione: un problema di matrice psicologica viene spostato o convertito verso un malessere corporeo, che può riguardare una parte del corpo o un organo particolarmente sensibile. Corpo e mente, come abbiamo infatti detto, sono strettamente connessi, a differenza di quello che si è pensato per molto tempo. Per questo motivo la cosa migliore è quella di riuscire a sfogarsi, in particolar modo per esempio con la psicoterapia: se non si trova il modo di “buttare fuori” quello che si sente, inevitabilmente alcuni disturbi si cronicizzano.

Soffrire di un disturbo psicosomatico non significa avere un dolore “immaginario” che non ha motivo di esistere. La motivazione può ovviamente cambiare da persona a persona, ma il disturbo è reale e come tale va trattato. Tutte le malattie vanno considerate nell’ottica psicosomatica di una interazione corpo/mente. I sintomi dei disturbi psicosomatici sono una delle possibili risposte a situazioni di stress e di disagio della persona. Le emozioni, soprattutto quelle più difficili da gestire come ad esempio la preoccupazione, la rabbia, il rimorso e il rimpianto, possono tenere il nostro corpo sempre attivato come se ci trovassimo costantemente in uno stato di emergenza. Se questo succede per un tempo troppo lungo, più lungo di quanto il corpo possa accettare e sopportare, tutto l’organismo “collassa”, si trova in difficoltà.

Vi capita mai di trovarvi in uno stato di angoscia tale per cui non riuscite più a “spegnere il cervello” e questo vi causa fastidi più o meno pesanti anche fisicamente? Questo è esattamente quello che succede in queste situazioni. Ovviamente l’angoscia di per sé va a colpire gli organi che sono più soggetti a tutto ciò, più “deboli”, come ad esempio lo stomaco. Si parla di vera e propria malattia psicosomatica quando la causa è totalmente o per la maggior parte psicologica, e questa porta poi ad una problematica evidente dell’organo, compresa eventualmente anche una lesione.

Proprio per il tipo di problema che le malattie psicosomatiche pongono, ovvero l’interazione tra corpo e mente, un intervento soltanto medico, seppur assolutamente necessario per escludere problematiche serie, non può essere condizione necessaria e sufficiente in quando non approfondisce le cause a monte del problema. Per questo motivo non solo è consigliato ma è davvero importante e necessario l’utilizzo della psicoterapia. Lo psicoterapeuta infatti può aiutare il paziente a fare il percorso inverso rispetto a quello fatto inizialmente, ovvero: riconoscere che è presente una componente emotiva che causa il sintomo fisico, non solo notare che quest’ultimo è presente cercando di gestirlo solo in superficie.

Abbiamo detto che somatizzare significa spostare il problema su una parte del corpo. Il lavoro terapeutico fa esattamente il contrario, ovvero riporta l’attenzione sulla parte emozionale e relazionale del problema, cercando di capire da dove è partito per poi poter lavorare insieme al fine di migliorare lo stato emotivo. Se si riesce, assieme al terapeuta, a trovare e dare un senso ai disturbi che ci affliggono, si può provare a ritrovare il proprio equilibrio emotivo e di conseguenza il proprio benessere.

L’OMOSESSUALITA’

Il mondo scientifico a partire dagli anni 70 si è progressivamente liberato del pregiudizio sugli orientamenti sessuali diversi da quello eterosessuale: nel 1973 il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali ha espulso l’omosessualità dall’elenco delle patologie psichiatriche e nel 1990 l’OMS ha affermato che l’omosessualità non è più una malattia. Gli orientamenti sessuali possono essere eterosessuali, omosessuali e bisessuali e questo fa parte della varietà, probabilmente anche con un’importante componente genetica, del modo in cui ogni individuo declina il suo interesse sessuale e amoroso. Anche se la scienza ha dato un decisivo contributo alla lotta contro il fenomeno dell’omofobia, al punto tale che oggi alcuni manuali diagnostici mettono al centro della problematica non la persona omosessuale ma quella omofobica, purtroppo non tutta la comunità scientifica è immune dal problema dell’omofobia, soprattutto nel momento in cui sta avvenendo l’inserimento effettivo delle persone omosessuali nel tessuto sociale, grazie alle unioni civili e alla possibilità di costruire famiglie. Gli studi scientifici più interessanti mostrano come l’omofobia sociale si riduca molto quando si viene a contatto con persone omosessuali. 
Da un punto di vista scientifico è preferibile parlare al plurale di omosessualità, dato che, come ci sono diverse tipologie di eterosessualità, così ci sono diverse tipologie di omosessualità e di bisessualità, ed è sempre difficile incasellare in una categoria predefinita la nostra esperienza più intima, che è quella del desiderio dell’altro.
In questa pluralità, creare categorie unificate è utile dal punto di vista descrittivo ma non da quello scientifico, dal momento che, per esempio, le omosessualità maschili e femminili sono molto diverse tra loro e sono il prodotto di aspetti psicologici, sociali, familiari ambientali e anche di tipo biologico e genetico, per cui è preferibile usare il termine varietà al posto di quello di diversità.
Nel corso della storia le omosessualità hanno incontrato modi molto diversi di tolleranza o di intolleranza, ma la grande novità della fine del secolo scorso è stata il loro divenire un elemento pubblico e l’acquisizione di una dimensione di rivendicazione di diritti e di uguaglianza nella differenza. Questo ha portato la persona omosessuale a diventare cittadino o cittadina, grazie alle leggi emanate per rendere possibile il riconoscimento del legame affettivo tra persone dello stesso sesso.

IL  SUICIDIO

Il comportamento suicidario comprende 3 tipi di azioni auto-distruttive:

  • Suicidio portato a compimento: atto autolesivo, che esita nella morte;
  • Tentativo di suicidio: atto che intende essere auto-distruttivo, ma che non esita nella morte, poiché l’azione era incerta, vaga o ambigua;
  • Atti suicidari: gesti che comportano un’azione con un potenziale letale molto basso (es. infliggersi ferite superficiali ai polsi); hanno un valore prevalentemente comunicativo.

I tentativi di suicidio e gli atti suicidari implicano ambivalenze riguardo la volontà di morire e possono rappresentare una richiesta di aiuto da parte di persone che desiderano ancora vivere.

Di solito, i comportamenti suicidari derivano dall’interazione di molteplici fattori.

L’elemento di rischio primario è costituito dalla depressione. Possono predisporre al comportamento suicidario anche i fattori sociali (es. delusione e perdita), le anomalie della personalità (es. impulsività o aggressività), le esperienze infantili traumatiche (es. famiglia separata, perdita dei genitori, abusi e violenze) e le malattie psichiatriche.

I tentativi di suicidio sembrano essere più frequenti, in particolare, tra i pazienti con disturbi d’ansia associati a depressione maggiore o disturbo bipolare. Alcuni pazienti schizofrenici sono inclini al suicidio a causa del disturbo depressivo a cui sono predisposti.

In qualche caso, il suicidio rappresenta l’atto finale di un comportamento autodistruttivo indiretto, cioè caratterizzato dall’esposizione ripetuta e spesso inconscia, a rischi potenzialmente letali senza l’intenzione di morire, ma con effetti in grado di rivelarsi alla fine autodistruttivi. Questo è il caso di alcolismo, abuso di droghe, automutilazione, guida imprudente, fumare molto, sovralimentazione e comportamenti antisociali violenti.

IL LUTTO

Il vocabolario della lingua italiana definisce il lutto (dal latino luctus, pianto, dal tema di lugere, piangere ed essere in lutto) come un cordoglio per la morte di qualcuno; il termine cordoglio deriva dal latino cordolium, composto da “cor”, cuore, e “dolere”, provare dolore: profondo dolore provocato da un lutto .

Il termine è stato introdotto in psicoanalisi nella traduzione dell’opera originaria di Sigmund FreudLutto e melanconia, dove lo studio del processo del lutto avveniva attraverso lo studio della depressione negli adulti. In questo scritto Freud chiarisce l’origine della malinconia come condizione psicopatologica, riporta le sue principali riflessioni sul lutto e sulla differenza tra lutto normale e lutto patologico. Egli scrive che il lutto è invariabilmente la reazione alla perdita di una persona umana o di un’astrazione che ne ha preso il posto, (come la patria, la libertà o un ideale), e che quando in alcuni individui questa perdita assume caratteristiche di una specifica disposizione patologica, allora il lutto si declina nella melanconia.

Si tratta in entrambi i casi di una perdita dell’oggetto d’amore ma che, nel caso della melanconia, questa perdita ha risvolti patologici in quanto il naturale processo del lutto viene sottratto alla coscienza. Freud precisa che nel lutto il mondo si è impoverito e svuotato, nella melanconia impoverito e svuotato è l’Io stesso; nel processo del lutto dunque, la perdita riguarda l’oggetto, ma nella melanconia sembra riguardare, da ultimo, il soggetto stesso. Successivamente, la psicoanalisi ha tentato di utilizzare i meccanismi che Freud attribuiva solo all’eziopatogenesi della melanconia e al lutto patologico anche per spiegare il lutto normale.

John Bowlby (1983) afferma che è corretto utilizzare il terminelutto per indicare tutti quei processi psicologici, consci o inconsci, che vengono suscitati dalla perdita di una persona amata, a prescindere dall’esito finale, se patologico o normale. Il lutto così concepito descrive il dolore, più o meno esplicito, che una persona prova nel vivere un’esperienza di perdita. In questi casi, per esempio, il termine lutto potrebbe essere sostituito da altri di uso comune come “cordoglio” o “afflizione”, per indicare quell’insieme di reazioni, pensieri e stati d’animo che caratterizza chi si trova ad affrontare una malattia grave o terminale che vede allontanarsi all’improvviso beni irrinunciabili come la salute, la libertà, l’autonomia, il benessere, la tranquillità, la spensieratezza, la pace e che minaccia il proprio futuro .

La presenza di un evento di perdita, l’insieme delle reazioni personali alla perdita, gli aspetti socio-culturali che costituiscono lo sfondo dell’evento e che contribuiscono a modificarne le caratteristiche. L’esperienza di perdita è vissuta diversamente da individuo a individuo e perciò può risultare scorretto, da un punto di vista clinico, giudicare come patologiche le reazioni psicologiche di un soggetto nelle prime fasi del lutto. È utile, invece, riconoscere le differenze in ogni individuo in termini di intensità e durata del fenomeno e considerare anche il gruppo culturale di appartenenza

Il luttorappresenta una risposta naturale a un evento di perdita che le persone possono sperimentare varie volte nell’arco della propria vita, che si manifesta attraverso un profondo dolore per la scomparsa o per la perdita di qualcosa o qualcuno al quale si era legati in modo particolare e costituisce una delle modalità psichiche con la quale l’individuo si trasforma dopo aver subito una perdita. Il vissuto di perdita è sempre correlato ad un dato di realtà, qualunque sia la natura dell’oggetto perduto o il significato che l’individuo gli attribuisce e costituisce un’esperienza al limite: quando si verifica ci lascia senz’aria come se si dovesse morire insieme alla persona perduta; ma se si torna poi a respirare significa che si è sopravvissuti e sopravvivere alla perdita equivale ad essere portatore di un trauma, che isola il dolore della perdita senza elaborarlo e che quindi tende a rinnovarsi in forme diverse

L’esperienza della perdita costituisce un passaggio universale sempre presente nel corso della vita umana e per l’uomo è estremamente dolorosa, in quanto lascia un senso di vuoto attorno al soggetto che lo costringe, inevitabilmente, a pensare ad un tempo in cui sarà la propria perdita a realizzarsi, a pensare il tempo della propria morte, o quello che precede la propria origine .

Il concetto di perdita è ormai entrato nel linguaggio comune come sinonimo di lutto, ma ciò in realtà è scorretto, poiché non tutti i lutti assumono il significato di una perdita. Le relazioni umane possono assumere forme diverse ed essere caratterizzate da diversi stati sentimentali in cui vi si possono soddisfare diversi bisogni tra cui: l’attaccamento, che soddisfa il bisogno di sicurezza e protezione, l’integrazione sociale e l’amicizia che soddisfano il bisogno di condivisione con l’altro, l’educazione che conferma come gli altri abbiano bisogno di noi, la rassicurazione sul valore, che attesta il valore dell’individuo, un senso di alleanza affidabile che assicura un’assistenza sicura e una guida, importante in ogni situazione di stress .

Si ha un lutto dunque quando si spezza un legame e di conseguenza si perde un tipo di relazione interpersonale e quando rimangono insoddisfatti i relativi bisogni. L’essere umano è portatore di diverse necessità e un modo per soddisfarle è quello di formare legami interpersonali, che possono essere dissolti con il conseguente dolore del lutto. Se si concepiscono i legami interpersonali come meri strumenti per la soddisfazione di bisogni, allora il lutto assume le caratteristiche di un processo psichico e biologico causato dalla perdita di uno di questi strumenti. Se gli altri risultano essere sempre dei mezzi, e non dei fini, con i quali si instaurano relazioni basate su bisogni reciproci, allora il lutto sarà sempre connotabile come perdita: quando un individuo muore o una relazione termina, si perde ciò che si possedeva per soddisfare questi bisogni. In questo senso, la morte di un proprio caro o la separazione da esso equivale ad una perdita della casa, del lavoro, di un ruolo o di una posizione sociale o economica . Al contrario, quando gli uomini stabiliscono invece relazioni basate sul desiderio dell’altro, anziché sul bisogno, allora l’identificazione del lutto con la perdita è solo parziale e non si può parlare di mancanza e di perdita. È evidente però, che i rapporti interpersonali basati esclusivamente sul libero desiderio dell’altro e non sul bisogno risultano essere meno diffusi e che, in generale, la perdita di una persona cara sottopone l’individuo ad un insieme di sentimenti luttuosi da superare.

LA DEPRESSIONE

La depressione, detta anche melanconia, è un’alterazione del tono dell’umore verso forme di tristezza profonda con riduzione dell’autostima e bisogno di autopunizione.

Le forme più frequenti di depressione fanno la loro comparsa dopo l’età media, quando diventa più difficile sperare nella vita perché il futuro è già in parte determinato dalle scelte compiute in precedenza.

Fasi depressive attraversano la vita di tutti gli uomini come episodi legittimi e comprensibili dove il soggetto è di solito consapevole di poterle superare da sé. Quando questa consapevolezza viene meno allora lo squilibrio depressivo assume caratteristiche psichiatriche che necessitano di un aiuto esterno.

Ci sono depressioni somatiche che hanno origine da malattie organiche e depressioni endogene che hanno una causa interna non organica e si dividono in monopolari, con fasi solo depressive, e bipolari con alternanza di fasi depressive e maniacali(euforia spiccata)

Infine abbiamo le depressioni psicogene che sono reattive ad un’esperienza vissuta come perdita: lutti, delusione amorosa, la frustrazione delle proprie aspettative, l’insuccesso nell’affermazione sociale.

Sintomi prevalenti sono: inappetenza, insonnia, diminuzione dell’interesse sessuale, tristezza profonda, senso di colpa,sentimenti di indegnità e autodisprezzo, perdita di iniziativa e progettualità, ideazione povera, pensiero rallentato, tendenza al suicido e desiderio di morte.

Il nucleo della depressione è formato da un’immotivata profonda tristezza alla quale si aggiunge un’inibizione di tutte le attività.

Il passato non passa mai e non concede al presente di accadere e al futuro di avvenire. La perdita di un amore, di una carriera… sono simboli di una perdita più ampia che è quella del presente e del futuro perché le dimensioni del passato si sono dilatate. Il presente diventa il tempo dell’incessante lamento, il futuro diventa l’ambito di vuote intenzioni.

In termini psicoanalitici si parla di melanconia come reazione alla perdita di un oggetto amato che non sia morto veramente ma che è andato perduto come oggetto d’amore a causa di una reale mortificazione o di una delusione subita dalla persona amata; questa relazione fu gravemente turbata. L’esito non è lo spostamento su un nuovo oggetto ma l’ utilizzo della melanconia per instaurare una nuova identificazione dell’io con l’oggetto abbandonato.

L’ombra dell’oggetto cade cosi sulla persona che finisce per giudicarsi come l’oggetto abbandonato. La perdita dell’oggetto diventa perdita dell’Io.

La melanconia sembra essere dunque una grave offesa all’autostima avvenuta nell’infanzia che ha minato la fiducia del soggetto in se stesso. Emerge un’ambivalenza tra il desiderio di distruggere gli oggetti interni da cui si è dipesi e l’impossibilità a sganciarsi da essi.

Secondo la Klein la depressione deriva dall’incapacità del bambino a collocare il suo oggetto buono e amato all’interno dell’Io. Questo determina un sentimento di cattiveria che non riesce ad essere protetto all’esterno e resta cosi incorporato nell’immagine di sé.

L’umore è generalmente flessibile: quando gli individui vivono eventi o situazioni piacevoli, esso flette verso l’alto, mentre flette verso il basso in situazioni negative e spiacevoli. Chi soffre di depressione non mostra questa flessibilità, ma il suo umore è costantemente flesso verso il basso, indipendentemente dalle situazioni esterne.

Non a caso, dunque, chi presenta i sintomi della depressione mostra frequenti e intensi stati di insoddisfazione e tristezza, tendendo a non provare piacere nelle comuni attività quotidiane. Le persone che soffrono di depressione vivono in una condizione di costante malumore e con pensieri negativi e pessimisti circa sé stessi, gli altri e il proprio futuro.

Altri importanti elementi che caratterizzano il disturbo sono:

  1. Una specifica alterazione dell’umore: tristezza, solitudine, apatia.
  2. Un concetto di sé negativo associato a rimproveri e auto-colpa.
  3. Desideri regressivi e auto-punitivi: desideri di fuggire, nascondersi o morire.
  4. Cambiamenti vegetativi: anoressia, insonnia, perdita di libido.
  5. Cambiamento nel livello di attività: ritardo o agitazione.

In generale,sentirsi depressi significa vedere il mondo attraverso degli occhiali con le lenti scure: tutto sembra più opaco e difficile da affrontare, anche alzarsi dal letto al mattino o fare una doccia. Moltepersone depresse hanno la sensazione che gli altri non possano comprendere il proprio stato d’animo e che siano inutilmente ottimisti.

Tra i disturbi depressivi più frequenti troviamo il disturbo depressivo maggiore, il disturbo depressivo persistente (distimia), il disturbo disforico premestruale. Una forma di depressione molto comune è anche la Depressione Post- Partum che colpisce le donne poco dopo aver dato alla luce un figlio.

La caratteristica comune di tutti questi disturbi è la presenza di umore triste, sensazioni di vuoto e irritabilità, accompagnati da cambiamenti somatici e cognitivi che influenzano in modo significativo la capacità di funzionamento dell’individuo. Ciò che differisce tra loro sono la durata, il tempismo o la presunta etiologia.

Il DSM mette in primo piano i sintomi biologici e somatici della depressione, ma trascura i vissuti soggettivi.

Molti studi sottolineano che i sintomi soggettivi come l’umore depresso, i sentimenti di disperazione e l’autosvalutazione hanno la stessa se non maggiore importanza dei sintomi biologici.

  • sintomi della depressione più comuni, alcuni definiti dal DSM, sono la perdita di energie, senso di fatica, difficoltà nella concentrazione e memoria, agitazione motoria e nervosismo, perdita o aumento di peso, disturbi del sonno (insonnia o ipersonnia), mancanza di desiderio sessuale e dolori fisici.
  • A questi però vanno uniti anche i vissuti emotivi tipici della depressione: le emozioni sperimentate da chi ne soffre sono la tristezza, l’angoscia, la disperazione, l’insoddisfazione, il senso di impotenza, la perdita della speranza e il senso di vuoto.
  • sintomi cognitivi sono la difficoltà nel prendere decisioni e nel risolvere i problemi, la ruminazione mentale (restare a pensare al proprio malessere e alle possibili ragioni), autocriticismo e autosvalutazione, pensiero catastrofico e pensiero pessimista.
  • comportamenti che contraddistinguono la persona depressa sono l’evitamento delle persone e l’isolamento sociale, i comportamenti passivi, frequenti lamentele, la riduzione dell’attività sessuale e i tentativi di suicidio. 

La depressione può colpire chiunque. La letteratura è concorde nel dichiarare che è spesso un sentimento di perdita a causare il manifestarsi del disturbo. Tuttavia le cause della depressione restano molteplici e diverse da persona a persona (ereditarietà, ambiente sociale, lutti familiari, problemi di lavoro,…). Le ricerche mostrano la presenza di due fattori di rischio principali come cause della depressione:

  • il fattore biologico: alcune persone nascono con una maggiore predisposizione genetica verso la depressione;
  • il fattore psicologico: le esperienze e i comportamenti appresi nel corso della propria storia di vita (es: la ruminazione mentale) possono rendere vulnerabili alla depressione.

Le conseguenze della depressione si possono riscontrare in diversi ambiti della vita del paziente. Chi ne soffre, infatti, ha importanti ripercussioni sulla vita di tutti i giorni, dalla famiglia al lavoro. L’attività scolastica o professionale della persona depressa può diminuire in quantità e qualità soprattutto a causa dei problemi di concentrazione e di memoria che tipicamente presentano lepersone con depressione. Questo disturbo, inoltre, porta al ritiro sociale e con il tempo danneggia le relazioni con il/la partner, figli, amici e colleghi.

In chi soffre di depressione, l’umore condiziona anche il rapporto con sé stessi e il proprio corpo. Tipicamente, infatti, chi è depresso ha difficoltà a curare il proprio aspetto, mangiare e dormire in modo regolare.

Non bisogna trascurare le conseguenze della depressione a livello fisico: l’American Heart Association (2014), ad esempio, ha evidenziato che la depressione è associata ad un aumentato rischio di sviluppare malattie cardiovascolari e cerebrovascolari. La depressione, se non trattata, peggiora gli esiti dell’insufficienza cardiaca e si associa ad una maggiore mortalità.

Chi soffre di depressione va incontro ad un ulteriore costo molto alto da pagare: soffrire a lungo e in forma grave del disturbo porta l’individuo a pensare, e spesso tentare, il suicidio. Molte volte infatti, chi soffre del disturbo si toglie la vita lasciando nel pieno sconforto amici e parenti.

Neltrattamento della depressione si ricorre alla terapia con antidepressivi e alla psicoterapia, entrambe di fondamentale importanza.

La terapia con antidepressivi è unicamente sintomatica, agisce cioè sui sintomi ed è necessaria quando la loro gravità inibisce la vita sociale, lavorativa affettiva.

Intervenire solo con i farmaci però molte volte non basta: va ricordato infatti che le cause della depressione non sono soltanto di tipo biologico e che il disturbo può insorgere anche per motivi di natura psicosociale.

D’altro canto, in molti casi, proprio quando la gravità dei sintomi inibisce la vita sociale, relazionale e professionale dei pazienti, ricorrere alla sola psicoterapia non è una scelta corretta: è bene, infatti, intervenire farmacologicamente sui sintomi, in modo da ridurne la gravità e iniziare così un percorso psicoterapico.

PAURE E FOBIE

È considerato comprensibile sentirsi preoccupati, ma talvolta la paura può superare la soglia di accettabilità sfociando in timori anche irrazionali, invadenti e ricorrenti, che causano un malessere significativo. Nel caso delle fobie, poi, la paura può arrivare a generare un vero e proprio terrore, sperimentato ogni qual volta ci si espone allo stimolo fobico.

In un’accezione più ampia, la paura rappresenta una reazione umana che spazia da meccanismi di autoconservazione necessari alla salvaguardia del singolo individuo o di una collettività fino a più complessi fenomeni inerenti ad una sofferenza emotiva.

In base all’età del soggetto e nel corso dello sviluppo, le paure possono riguardare non solo oggetti concreti (situazioni, persone o animali), ma anche oggetti astratti o immaginari (ad esempio la paura del buio e dei fantasmi nei bambini, o negli adulti la paura di fallire, di fare brutta figura, o di non essere all’altezza). 

È considerato nomale e comprensibile sentirsi preoccupati e tesi di fronte a momenti di vita particolarmente sfidanti o stressanti (ad esempio un congruo livello di ansia prima di un esame può aiutarci a prepararci meglio e ad essere più concentrati), ma talvolta la paura può superare la soglia di accettabilità sfociando in timori anche irrazionali, invadenti, persistenti e ricorrenti, causa di malessere significativo, accompagnati da rimuginio, e suscitati da situazioni che non presenterebbero di per sé alcuna, o una bassa, pericolosità oggettiva. Ciò può sfociare in una reazione ansiosa opprimente e intensa, legata generalmente ad una previsione negativa o pessimistica sul futuro.

Se il termine paura fa riferimento all’emozione sperimentata dall’individuo, quando parliamo di fobie ci addentriamo in un meccanismo complesso ed enigmatico, ma al tempo stesso carico di senso.

La fobia infatti è generata da un lavoro mentale inconscio di trasformazione e chi ne soffre fatica a rintracciarne gli antecedenti o le cause, sentendosi travolto da un vissuto incomprensibile.

Le fobie rientrano nell’ampia categoria dei disturbi d’ansia e sono caratterizzate da una paura o ansia persistente, intensa e marcata, anche accompagnata da reazioni fisiche, automatiche e sgradevoli – come tachicardia, sudorazione, tremore, etc. – oggettivamente (ma non soggettivamente!) sproporzionata alla pericolosità dell’oggetto o della situazione. Il sintomo può manifestarsi anche con un vero e proprio terrore sperimentato all’esposizione allo stimolo fobico, portando la persona a vivere in uno stato di costante allarme e di ipervigilanza.

Ad esempio, recarsi al supermercato da soli o attraversare una piazza dove transitano dei piccioni può non essere pericoloso di per sé, ma queste azioni possono rappresentare per l’individuo qualcosa di insormontabile. Tale reazione è spesso riconosciuta dal soggetto come spropositata o esagerata, ma non controllabile, e resistente a qualsiasi tentativo razionale di rassicurazione. 

Vi sono infatti fobie estremamente invalidanti (agorafobia, claustrofobia) che sovente risultano accompagnarsi con attacchi di panico dando luogo a quel processo di “paura della paura” (o ansia anticipatoria) che consolida il sintomo.

Altre fobie sono legate a “bersagli” maggiormente specifici, come le zoofobie, più facilmente evitabili.

Le fobie portano generalmente l’individuo ad un comportamento di evitamento o fuga, con vissuti di crescente sfiducia, che possono incidere fortemente sulla vita di chi ne soffre.

La necessità, ad esempio, di evitare luoghi pubblici può rappresentare una grave limitazione nella quotidianità lavorativa ed affettiva dell’individuo. Oltre alla qualità della vita inoltre ne risultano infatti spesso influenzate anche la stima di sé e la libertà di muoversi nelle relazioni interpersonali.

L’approccio psicoanalitico sottolinea come non sia tanto rilevante l’oggetto specifico bersaglio dello stimolo fobico (in quanto sono innumerevoli le “cose” o le situazioni che potrebbero suscitare una reazione sproporzionata) quanto il suo significato simbolicole origini e cause del sintomogli eventi di vitagli eventuali traumio il momento in cui il sintomo ha fatto la sua comparsa, oltre ai fattori particolari e soggettivi inerenti alla storia relazionale dell’individuo.

L’approccio terapeutico psicoanalitico è finalizzato a ritrovare gli affetti e i moventi pulsionali apparentemente persi o dimenticati che hanno dato luogo all’insorgere della fobia, trasformati dalla vita mentale inconscia in qualcosa d’altro. Il processo di recupero di spinte vitali nascoste e/o represse permette alla persona di reintegrarle dentro di sé, riappropriandosi pienamente della propria vita emotiva e affettiva. Una psicoterapia è eventualmente integrabile, laddove necessario e sotto la guida di un medico psichiatra, con una cura farmacologica, che può inizialmente aiutare a ridurre il livello di sofferenza e a “lavorare” con maggiore serenità in psicoterapia. È importante per noi sottolineare che l’obiettivo, nel trattamento psicoanalitico delle paure e fobie, è quello di cogliere il senso profondo e particolare del malessere soggettivo (di cui il sintomo fobico rappresenta solo una spia o una manifestazione “visibile”) e non solamente a sedarne le manifestazioni.